Servono i vermi e l’odore della morte perché qualcuno intervenga

Il dramma della solitudine e della disabilità: una signora di 67 anni di Treviso è stata trovata in casa priva di vita. Il suo corpo era in evidente stato di decomposizione
Silhouette of woman.
Silhouette of woman.

TREVISO. Nei giorni scorsi questo giornale, assieme a molti altri locali, ha dato la notizia della morte di una signora di Treviso di 67 anni, il cui corpo è stato scoperto in casa in avanzato stato di decomposizione. L’articolo si chiude con una dichiarazione del sindaco Conte che recita «non era in carico ai nostri servizi sociali; so che era seguita dalla Psichiatria dell’Ospedale. Invito i cittadini a segnalare, a farsi vicini delle persone che vivono accanto a loro, a farci conoscere situazioni di abbandono o di fragilità in modo che possiamo essere più capillari. Solo assieme, possiamo combattere la solitudine, soprattutto oggi».

Il caso ha voluto che sia stato io a chiamare i servizi sociali lo scorso 24 agosto, io a sentire il 25 mattina la puzza proveniente dall’appartamento di Donatella Sanson, io a chiamare le forze dell’ordine e a fare il riconoscimento del cadavere, e soprattutto io, assieme a molti altri inquilini del Condominio Piazzetta (in particolare a Lucia Busatto), a segnalare il caso della signora da più di due anni e mezzo a tutte le autorità competenti, sicché ritengo di essere sufficientemente addentro a questa vicenda per dire la mia.

Al di là del fatto che l’ultimo segnale dalla signora è arrivato il 13 agosto e non il 6 come leggo ovunque, mi rendo conto che ciò che passa da questo e da molti altri casi di cronaca simili, ormai sempre più frequenti, è l’atroce indifferenza della società in cui viviamo. Era anche la mia reazione quando leggevo di queste vicende sui giornali: com’è potuto accadere? Com’è possibile che nessuno se ne sia accorto prima? Perché è sempre necessario l’«odore forte» proveniente dalla casa del vicino per far scattare l’allarme? Non era possibile intervenire prima, se non nello stadio della prevenzione del malessere, almeno quando, nella sua insorgenza, si poteva ancora salvare la vita della persona? Dopo questa esperienza, ho un po’ spostato il punto della questione.

Da due anni e mezzo la signora Sanson, che viveva sola e non aveva parenti né amici al mondo, urlava (di giorno, di notte), malediceva, sfogava tutto il suo male contro nemici immaginari, aggrediva verbalmente chi le chiedeva quale fosse il problema (a tutti noi condòmini è toccato l’insulto, spesso crudelmente ricercato: la signora parlava senza alcuna cadenza regionale e con lessico forbito). Abbiamo segnalato alla polizia, ai servizi sociali (che ben conoscevano la sua situazione), all’Ulss, all’Ater (proprietaria della casa dove la signora viveva in condizioni indegne), sempre preoccupati anzitutto del suo bene.

Mai nelle numerose discussioni tra condòmini, dentro i rispettivi appartamenti o nei pianerottoli, ho sentito una parola di odio. Mai. Anche se a molti sono toccate notti insonni e offese. Vedevamo il disagio e ci premeva risolverlo. Ma nessuno ci aiutava a farlo. Solo la polizia, chiamata in alcune occasioni nel mezzo della notte, veniva, verbalizzava, ma comprensibilmente non poteva fare altro.

L’atteggiamento dell’Ater merita due righe in più: quando li chiamai, circa due anni fa, facendo presente che era loro responsabilità verificare le condizioni in cui viveva un loro affittuario, mi risero letteralmente dietro. Intere pareti dell’appartamento sono nere, totalmente ricoperte di muffa gocciolante. Non c’è riscaldamento. Per il gas Donatella usava una bombola. L’Ater mi rispose che nel caso di una caldaia nuova da installare sarebbero intervenuti, ma su un appartamento intero da ristrutturare non c’era nulla da fare, se non aspettare la morte dell’inquilina. Eccoci.

La signora rifiutava i contatti, non apriva a nessuno, usciva solo per fare la spesa e per visitare la tomba della madre. Pochissimi riuscivano a farci due parole. Ci si limitava ai saluti, quando il suo umore era buono. (E ogni tanto lo era: quando, durante la ristrutturazione del mio appartamento, mio padre la incontrò e si scusò per i rumori, lei rispose che non le davano fastidio: volevano dire che almeno sarebbe arrivato qualcuno).

Non apriva nemmeno all’amministratore di sostegno, e perciò a fine febbraio è stato deciso un TSO (i TSO, come dovrebbe sapere Conte, li autorizza il sindaco del comune competente); i pompieri, non riuscendo a sfondare la porta, entrarono dalla terrazza e la trovarono con un coltello in mano, terrorizzata. Tornata da tre settimane in psichiatria, Donatella era visibilmente diversa. Non usciva quasi mai, alzava appena le tapparelle, non urlava più e apriva la porta ai responsabili dell’Ulss, che a lockdown terminato vennero a trovarla. Era imbottita di farmaci, evidentemente, e questo la rabboniva – la annullava. I farmaci li doveva prendere in autonomia, ma aveva visite periodiche a cui sottoporsi. Qualcosa si stava facendo, ma era davvero questa l’unica soluzione?

Ciò che a noi inquilini risultava evidente era l’immensa solitudine nella quale sono abbandonate le persone che soffrono di problemi psichici. In una società della iper-competizione, della prestazione e della positività obbligata che produce sempre più casi di depressioni e malattie psichiche, si è sempre meno in grado di prendersene cura. La macchina provoca il disagio ma poi “privatizza” il disturbo, se ne lava le mani, abbandona il cittadino, lo addita in modo più o meno implicito a unico imputabile del proprio malessere e quindi a unico responsabile della propria cura. Tutt’al più si arriva allo scaricabarile sulla famiglia (se c’è) e sui vicini, che non hanno le competenze mediche per gestire casi simili; tutto ciò che possono fare è chiedere, interessarsi, osservare, chiamare aiuto. Il problema è che chi viene chiamato fa troppo poco. (È messo nelle condizioni di fare troppo poco? Chi ha visto Joker, che di questo parla, sa a cosa mi riferisco).

E dunque l’epilogo non poteva che essere un “dramma della solitudine”. Tornato dalle ferie il 21 notte, noto lo zerbino di Donatella sollevato. Succedeva. Era successo molte volte che non lo abbassasse dopo le pulizie. Ma è un indizio. Mi basta per fare attenzione. Suono il campanello, sapendo che è inutile. Il 22 sera noto la luce del bagno accesa. Memorizzo il livello delle tapparelle. Il 23 esco solo per vedere se sono nella stessa posizione: lo sono. La luce è ancora accesa. Il 24 chiamo i servizi sociali. Dicono che provvederanno subito. Non succede nulla. Il 25 inizio a sentire il cattivo odore e chiamo il 118.

Così sono andate le cose. Si è dovuti arrivare all’«odore forte» perché era la condizione necessaria affinché qualcuno intervenisse davvero. Ci vogliono i vermi perché qualcuno si muova (sono larve di mosche, specificava il medico durante il riconoscimento). Irrita leggere ipocriti inviti a «farsi vicini» e a segnalare le fragilità. Il punto è che le fragilità psichiche in questo Paese non si sanno gestire. Che la morte di Donatella Sanson sia uno stimolo per farlo meglio.

 

L'autore del testo è Francesco Targhetta. Nato a Treviso, dove vive, 40 anni fa, insegna lettere al Duca degli Abruzzi. Dopo il dottorato in Italianistica a Padova (tesi su Corrado Govoni), ha approfondito gli studi sulla poesia simbolista di fine '800. Nel 2009 ha esordito con la raccolta di liriche “Fiaschi”, alla quale ha fatto seguito il romanzo in versi “Perciò veniamo bene nelle fotografie”, nel 2012, e la plaquette “Le cose sono due” nel 2014, vincitrice di due riconoscimenti. Nel 2018 esce il romanzo generazionale “Le vite potenziali”, ben accolto dalla critica, vincitore del Premio Berto e finalista del Campiello. 
 
15/09/2018 Venezia, Premio Campiello 2018 : Francesco Targhetta scrittore
15/09/2018 Venezia, Premio Campiello 2018 : Francesco Targhetta scrittore
 




 

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso