Prove di pace in tempo di guerra nel Continente nero alla Cimic di Motta

MOTTA DI LIVENZA. Stato di Sorotan. Giorno della missione numero 161. Temperatura esterna 39°C, tasso di umidità al 66%. La caserma “Mario Fiore” di Motta di Livenza, sede del Multinational Cimic Group dell’esercito italiano, diventa un pezzo d’Africa. Così ci si prepara a una speciale esercitazione che simula uno scenario di crisi poco distante dal Mar Rosso dove è stato chiesto l’intervento dell’Alleanza Atlantica.
Il Cimic rappresenta una peculiarità assoluta in ambito internazionale, è chiamato a fare da cerniera tra i contingenti militari e le comunità locali. Fautori del dialogo, protagonisti della cooperazione civile-militare, gli uomini e le donne del Cimic operano per gettare le fondamenta della pace. La costruzione di ponti, acquedotti, il supporto psicologico alle vittime di violenza e traumi di guerra. Valori che hanno portato a identificare in Madre Teresa di Calcutta la santa protettrice del corpo, il processo di approvazione è in atto.
LO STAFF
L’unità multinazionale interforze a guida italiana conta nella sua sede di Motta 500 militari tra i quali una ventina di donne. Ogni mese il personale viene dispiegato sul campo: 20 membri nell’operazione Strade Sicure, 20 in missioni all’estero, negli scenari caldi di Kosovo, Libano, Afghanistan, Somalia, Gibuti e Niger.
Il training attivato in questi giorni all’interno della caserma mottense mescola azioni computerizzate e addestramento sul terreno con giochi di ruolo: solo il contesto è fittizio, il resto è fortemente aderente alla realtà. Nel compound ben mimetizzato si trova Tactical Operation Center, cuore della missione Cimic nel continente nero, il comandante Enrico Pizzileo studia attentamente la mappa. Capo branca operazioni, nella quotidianità, per l’occasione si ritrova comandante del Mncg-Hq.
«L’Africa è un continente fantastico, prende ma non perdona. Siamo sulla linea del fronte per ristabilire l’integrità territoriale» dice ai suoi «questo non è un gioco, ci stiamo addestrando a operare per davvero. Occorre pensare come un africano, abituarsi a ragni e serpenti, considerare i bambini che usano le armi e le donne sfruttate sessualmente. A livello tattico i profughi sono usati come un’arma dal nemico, vengono veicolati lungo le strade per rallentare le operazioni». Lo scenario è ostile, la mediazione resta il perno.
DENTRO IL COMPOUND
Nella cittadella si lavora h 24, 7 giorni su 7, la struttura mobile è autosufficiente sotto il profilo energetico, delle comunicazioni e degli approvvigionamenti, a fendere il silenzio della campagna mottense trasformata in deserto africano, una tv sintonizzata su Al Jazeera. Dopo il briefing mattutino ci si muove all’esterno. Parte un convoglio di Lince, a bordo lo staff del Cimic e un mediatore culturale per l’incontro con un capovillaggio della zona dove è presente l’unico pozzo d’acqua. Un dialogo garbato attraverso un caotico suk che finisce attorno a un tavolo, sorseggiando del tè.
«All’interno del pacchetto di forze predisposte dalla Nato in risposta alla crisi, il Multinational Cimic Group si è trovato a operare in stretta aderenza con il tessuto civile» sottolinea il comandante del Mncg, colonnello Luca Vitali. Per chi vive l’esperienza reale tutto è ancor più amplificato. Ogni partecipante porta con sé aneddoti e ricordi. In un orfanotrofio in Gibuti Antonio Colia, staff officer della branca addestramento e istruttore Cimic, ha incontrato un bambino con una grave infezione che gli aveva distrutto l’occhio. «Grazie a una raccolta fondi abbiamo potuto curarlo e consentirgli di mettere una protesi». E quel bimbo, che oggi ha 11 anni, è diventato come un figlio.
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