Piazza Fontana. Innescata nella Marca la bomba della strage di 50 anni fa a Milano

TREVISO. Passa per Treviso la strage di Piazza Fontana. È di Castelfranco Giovanni Ventura, libraio, neofascista, primo imputato con Franco Freda, procuratore legale ed editore di Padova. Imputati assolti, dopo 10 processi. È trevigiano Guido Lorenzon, il grande testimone, e di Vittorio Veneto l’avvocato a cui si rivolse, Alberto Steccanella, poi sostituito da Dino De Poli.
Lavoravano a Treviso i magistrati Giancarlo Stiz e Pietro Calogero, quelli che diedero la svolta decisiva all’inchiesta che aveva imboccato la pista anarchica grazie ai depistaggi di Stato.

Oggi, 50 anni fa, il 12 dicembre 1969, nella Banca dell’Agricoltura, filiale di piazza Fontana a Milano, esplode una bomba: 17 morti, 88 feriti. Lo stesso giorno, a Roma, esplodono altri tre ordigni. Feriti e danni.
La regia sembra ed è unica. E si parla subito di strategia della tensione. La Marca l’ha covata sicuramente. Estate 1966, Giovanni Ventura e il padovano Franco Freda spediscono 2000 lettere ad altrettanti ufficiali dell’esercito. La sollecitazione è mobilitarsi contro il comunismo.

Guido Lorenzon, carrista ad Aviano, ne intercetta una e si insospettisce. Ventura lo conosce fin da quando, nel 1964, frequentavano il Pio X di Borca di Cadore, Lorenzon come istitutore, Ventura come collegiale. Passano appena tre giorni dalla strage e Lorenzon corre dall’avvocato Steccanella. Negli stessi momenti l’anarchico Pinelli volava dalla finestra del quinto piano della questura di Milano.
Lorenzon confida a Steccanella i sospetti su Ventura e gli chiede consiglio. Ventura, infatti, gli ha raccontato delle bombe dell’estate 1969 e gli ha pure mostrato un timer da lavatrice. All’avvocato consegna anche un libro di Freda, che gli sembrava l’ispiratore di Ventura. Un opuscolo sulla giustizia che sarebbe come il timone: dove la si gira, va. Steccanella consiglia a Lorenzon di stendere delle memorie. Il 19 dicembre Lorenzon si trova in tribunale a Treviso, davanti a Calogero, che gli chiede tutto, proprio tutto, su quell’opuscolo di Freda.
Trascorrono le feste e il 4 gennaio 1970 Lorenzon prende il coraggio a quattro mani e confida a Ventura di averlo denunciato. Ma tre giorni dopo ritratta, ovviamente su suggerimento dell’interessato, che nel frattempo era stato interrogato dal questore di Treviso il quale lo aveva definito “un bravo ragazzo”; l’avvocato Steccanella lo molla e Calogero lo indizia per il reato di calunnia. È il 20 gennaio 1970 quando s’incontrano, in un albergo a Mestre, Lorenzon, Ventura e Freda. Calogero, da un’auto parcheggiata poco distante, ascolta tutto, via radio. Di lì a pochi giorni l’inchiesta passa da Treviso a Roma, dove i giudici Occorsio e Cudillo indagano sulla pista anarchica. Nell’estate di quell’anno, infatti, Ventura viene prosciolto da ogni accusa. Resta in piedi, invece, quella di diffamazione per Lorenzon, definito un mitomane. Nel gennaio 1971 gli atti ritornano a Treviso e il giudice istruttore Giacarlo Stiz, anziché archiviarli, procede con una nuova istruttoria. Dopo qualche mese, ad occuparsene sarà la procura di Padova.
Ma attenzione: in novembre viene scoperto, in casa di un ingegnere a Castelfranco, un deposito di armi. L’inchiesta torna a Treviso, da Stiz. Il quale che fa? Dopo un approfondimento d’indagine, anche su presunti legami con Ordine Nuovo, emette un mandato di cattura nei confronti di Freda e Ventura. Le intercettazioni telefoniche della procura patavina sono tornate di grande utilità, ancorché archiviate per un periodo. Come più avanti risulterà decisivo il sequestro dell’agenda di Freda. Il padovano è accusato di partecipare ad una “associazione avente lo scopo di sovvertire violentemente l’ordine politico, sociale ed economico dello stato”. Il trevigiano è sospettato di aver procurato i “mezzi di finanziamento” e di aver procacciato le armi da guerra e il materiale esplosivo. Esplosivo nascosto in un casolare di Paese, secondo un “pentito”, da Giovanni Ventura, morto a Buenos Aires nell’agosto 2010. Materiale per preparare gli ordigni utilizzati almeno negli attentati ai treni nell’agosto del 1969. Qui si sarebbero anche svolti numerosi incontri nei mesi precedenti l’esplosione della bomba alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre ’69.

Nel gennaio 1972 comincia ad emergere il possibile collegamento tra le cellule nere venete e piazza Fontana. Ancora qualche settimana e il fascicolo passa a Milano. E poi fa il giro d’Italia. Nel 1979 il tribunale di Catanzaro condanna all’ergastolo Freda, Ventura e Giannettini, giornalista a libro paga di quei servizi segreti che non sembrano affatto estranei a quanto accaduto. Assolti in secondo grado, Freda e Ventura vengono condannati a 15 anni per altri attentati compiuti a Padova a Milano. La Cassazione renderà definitiva la sentenza nel 1987.
Negli anni 90 si aprirà una nuova fase istruttoria, condotta dal giudice Guido Salvini, che il 30 giugno 2001 porterà all’ergastolo gli esponenti veneti di Ordine Nuovo Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, oltre al neofascista milanese Giancarlo Rognoni. Ma la sentenza viene ribaltata in secondo grado con l’assoluzione dei tre imputati. Nel 2005 la Cassazione confermerà la responsabilità di Freda e Ventura, ma non potrà condannarli perché già processati e assolti per lo stesso reato. —
Francesco Dal Mas
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