Padre Ermes Ronchi: «Facciamo scorta di abbracci e carezze, un giorno tutto quest’affetto sarà dato»

Coronavirus a Treviso, il teologo dell’Ordine dei Servi di Maria interpreta le sensazioni di un periodo difficile per i nostri cari più deboli: «Immagino le braccia aperte di Cristo in croce come un abbraccio inchiodato, lì che non può mai azzerarsi» 

Quando finirà tutto questo? È Pasqua, la festa della Resurrezione, ma la rinascita dal coronavirus? «Un frate mio amico ha scritto una poesia in cui dice: “Un giorno tutti i baci non dati saranno dati”. Allora, anziché domandarci quando finirà tutto questo, come le donne il sabato preparavano aromi e oli profumati per portarli al corpo di Gesù, io in questo tempo accumulo scorte di volti, di occhi, di mani. Metto da parte affetto e carezze per chi sta soffrendo, intuisco sorrisi sotto le mascherine, in attesa di quella piccola profezia».

La risposta è di padre Ermes Ronchi, friulveneto, teologo dell’Ordine dei Servi di Maria, scelto nel 2016 da Papa Francesco per guidare gli esercizi spirituali di Quaresima per il Pontefice e per la Curia romana.

Qual è il suo augurio di Pasqua nel vortice di una pandemia?

«In questi giorni vediamo grafici e curve impennarsi su contagi, guariti e deceduti. Dietro questi numeri dobbiamo intravedere volti, immaginare gli occhi di chi non ha avuto una carezza, di chi è morto solo. L’augurio è che la Pasqua, questa Pasqua inedita, ci doni un nuovo sguardo sulla persona che deve essere al centro, venire prima degli interessi politici, economici e finanziari».

Lei crede veramente che in un mese di quarantena siamo riusciti a comprendere la preziosità della vita?

«Potevo esserci anch’io in una di quelle povere bare portate via dai camion di notte… Ce lo siamo mai chiesti? Bisogna imparare ad avere cura della preziosità del corpo, dell’anima e della mente. E noi, che ci credevamo signori del Creato, dobbiamo prendere confidenza con il mistero, con l’imprevisto che ci supera e forse è una feritoia verso Dio».

Ma Dio dov’è in questi giorni?

«È lassù, in croce. È nel sepolcro vuoto».

Se lo immagina o no con il dito puntato contro l’uomo, fino a castigarlo con la morte che ci lascia attoniti?

«Io immagino le braccia aperte di Cristo in croce come un abbraccio inchiodato, lì che non può mai azzerarsi. L’ho capito da un film di Kiesloswki che diceva: un bambino non era stato educato alla fede e allora un giorno domanda alla zia “zia com’è Dio?”, e la zia non sa cosa rispondere. Dopo un poi gli dice “vieni qui” e il bambino va sulle ginocchia, la zia se lo abbraccia e gli dice “Paolo come ti senti adesso?” e lui le risponde “bene zia, mi sento bene”. E lei gli dice “ecco, Dio è così. Come un abbraccio”.

Ma un anziano delle nostre case di riposo, un malato di Covid lei lo prenderebbe in braccio per fargli provare quanto Dio è affettuoso?

«Sì, se fosse possibile. Altrimenti gli donerei una carezza. D’altra parte, anche nei nostri ospedali, nelle case di cura ci sono mille cirenei, mirabili e meravigliosi. Ti porterò con me, in braccio. Poterlo dire a qualcuno, ecco, io ti porterò con me in tutti i passi che farò e in tutti quelli che farai. E se questo non è possibile, almeno si accarezzino le mani o si posi lo sguardo negli occhi dei nostri “veci”, come dite voi. Ecco, la Pasqua è l’abbraccio, la carezza».

Pasqua è passaggio? Dove andremo ad accamparci? E con quali nuovi stili di vita, semmai davvero la pandemia ci cambierà?

«Non è un virus che cambia il cuore dell’uomo. Lo cambia la meditazione, la contemplazione, la cura amorevole. Lo cambia il dono di carità, il coraggio di voler bene, una carezza nuova, amare e lasciarsi amare. Questo ci cambia il cuore, non il virus. Ed anche nei confronti del mondo, sono tantissime le proposte e almeno una possiamo farla nostra. Ognuno vedrà quale è più conveniente. Noi siamo in un trauma, una ferita che ci attraversa, che però può diventare una feritoia attraverso la quale passa luce, vita, passa speranza. Noi possiamo aprire, ogni cosa ha le sue crepe ma attraverso queste entra la luce, come diceva Leonard Cohen».

Ma non tutti credono in Dio.

«Sì, certo. Noi pensiamo a Dio che arriva lì dove noi non arriviamo, con le medicine, con la scienza. Dio è dentro il nostro lottare, come forza di speranza, come forza di affidamento, come capacità di guardare oltre, come fiducia nella Pasqua. È dentro la sofferenza, non è quello che toglie la sofferenza al mondo. Dio non ha tolto suo figlio dalla croce, l’ha salvato nella croce. Non ci toglie dalla tempesta, ci salva nella tempesta. Non ci libera dal dolore ma dentro il dolore, mettendo un calore più intenso, un orizzonte più largo, mettendo l’attesa poi dell’approdo, della grande patria. E questo sogno possono coltivarlo anche coloro che credono di non credere». —

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