Padova come Garissa, Fabrica al Bo ricorda la strage avvenuta in Kenya

Un centinaio di studenti del'Università hanno dato vita a una foto-simbolo per ricordare il massacro
La foto realizzata da Fabrica e pubblicata sul "Corriere della Sera"
La foto realizzata da Fabrica e pubblicata sul "Corriere della Sera"

PADOVA. "Mai più", in nessuna università. Padova ricorda il massacro di Garissa con un'iniziativa shock, pubblicata sul "Corriere della Sera". Una foto, realizzata da Enrico Bossan e dallo staff di "Fabrica", coinvolgendo gli studenti su impulso di Silvia Giralucci. E' la trasposizione nel cortile antico del Bo della foto-simbolo del massacro avvenuto il 2 aprile scorso nell’università di Garissa, in Kenya, dove hanno perso la vita quasi 150 studenti.

«Come indica il motto dell’Università di Padova "Universa Universis Patavina Libertas" - spiega Sofia Sutera, una delle studentesse partecipanti alla performance nel Cortile Antico del Bo - la libertà è la conquista più grande che si possa raggiungere e per cui bisogna sempre lottare perché in ogni momento nuovi fondamentalismi possono cercare di portarcela via. Purtroppo però bisogna sempre ricordare che l'ignoranza e l'indifferenza uccidono ancora più delle armi ma mi auguro davvero che un giorno riusciremo a renderci conto che siamo tutti fratelli, appartenenti ad un'unica famiglia da cui dipende il futuro stesso della Terra, perché gli studenti uccisi a Garissa siamo noi stessi, non sono altri rispetto a noi. Siamo noi: studenti che continuiamo a morire per i valori in cui crediamo, quando invece dovremmo vivere per i valori in cui crediamo».

«Quei ragazzi - scrive Ana Camila Annarelli, 22enne studentessa di Psicologia - avremmo potuto essere noi. Quei ragazzi erano come noi. Persone che si stavano creando un futuro seguendo i propri sogni, le proprie ambizioni, persone che come noi volevano raggiungere i propri obiettivi. E invece sono stati strappati dalle loro stesse vite».

«Nulla - dice Nora Del Cordo che studia Scienze Politiche ricordando il giorno in cui ha saputo della strage - mi rende poi così diversa da Ruth o Maggie, Dorren o Mary. Studentesse e cristiane. Come me, ma in Kenya. Mai ho provato di più il senso di appartenenza a un gruppo come in questa tragedia. Ho pianto e stretto i pugni, ho provato tristezza ma soprattutto impotenza. Sono cristiana e sono fiera di esserlo e non proverò più vergogna nell'esserlo, non proverò più a cambiare argomento quando qualcuno mi dirà: "Ma perché vai a messa?". Non lo faccio solo per me, ma per tutte le persone che pur di rinunciare alla propria fede, al proprio Dio preferiscono morire in modi terribili e disumani, ma con la dignità che li rende eroi. Voglio partecipare a questo progetto per non provare quel senso di impotenza che per un attimo mi fece detestare il mondo. Voglio partecipare perché ho speranza, perché amo la vita e le persone sono l’unica chiave per aprire la porta del "Mondo Migliore"».

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