«Noi, scesi dalle montagne nel fuoco dell’attacco finale»

Dall’ordine del Comando alleato agli scontri per entrare a Vittorio Veneto. Uno storico incontra il partigiano Altoè, comandante del “battaglione Celanti”

Il 25 Aprile è una di quelle date che rappresentano uno snodo fondamentale nella storia del nostro Paese. E’ infatti in questo giorno, assunto convenzionalmente dagli storici e dalla pubblicistica come il momento della Liberazione di tutto il Nord Italia, che vi fu la Liberazione del nostro Paese dall’invasore tedesco e dal fascista collaborazionista; è in questa data che finì una lunga guerra durata ben 5 anni e l’Italia fu restituita alla libertà e alla democrazia. Ma il 25 Aprile non è stato identico per tutti quelli che l’hanno vissuto, né è finito allo stesso modo e allo stesso tempo. Per quelli che erano prigionieri, internati o deportati nei campi di concentramento tedeschi, il 25 Aprile ebbe termine per esempio molto tempo più tardi, e a prezzo di ulteriori e inutili sofferenze. Ma anche per coloro che questo appuntamento l’hanno vissuto in casa, come per esempio i resistenti, esso è risultato diverso a seconda dei luoghi e delle circostanze in cui i partigiani si trovarono ad operare.

Cosa sia accaduto in quei frangenti, quali siano stati le speranze e il senso complessivo di quella esperienza negli anni a seguire, lo abbiamo chiesto a uno dei protagonisti di allora: Lorenzo Altoè, classe 1922, partigiano del Gruppo Brigate “Vittorio Veneto”.

Altoè non è un partigiano qualunque: è stato comandante di una formazione del Gruppo Brigate “Vittorio Veneto”, e cioè il Battaglione “Celanti”, ma soprattutto è quel partigiano del Gruppo Brigate “Vittorio Veneto” che detiene il primato di essere entrato per primo a liberare ben due centri abitati in prossimità dell’Altopiano del Cansiglio: i Comuni di Cappella Maggiore e Vittorio Veneto.

Anzitutto ci spieghi dove si trovava il 25 Aprile 1945?

«Come buona parte degli altri resistenti, il 25 Aprile 1945 mi trovavo ancora in montagna, in particolare sul Pizzoc, con tutti gli uomini del Battaglione “Celanti”, una settantina circa, in attesa dell’ora X per scendere dalla montagna e liberare i centri abitati. Bisognava scongiurare il saccheggio delle case, la distruzione delle fabbriche e degli impianti idroelettrici ad opera dei nemici. Ricordo che eravamo tutti in fibrillazione, perché il momento era davvero importante. Con i capi squadra studiavamo accuratamente le mappe della discesa e dei centri abitati da occupare, in modo da esser in grado di riconoscere subito gli obiettivi sensibili da neutralizzare, come caserme, presidi e così via».

Quando è iniziata la vostra discesa dal Cansiglio?

«L’ordine arrivò la sera del 27 Aprile a mezzo della Missione Alleata “Scorpion”. Così recitava: ‘Il Comando Supremo Alleato del teatro di guerra mediterraneo ordina alla Divisione di attaccare tutti gli obiettivi già scelti e di effettuare delle azioni contro il nemico su tutte le linee di comunicazione secondo le priorità seguenti: a) attacco contro il nemico; b) occupazione dei centri popolati’. Noi tuttavia, su sollecitazione del vicecomandante del Battaglione “De Luca” della Brigata “Cairoli Eugenio Breda “Neno”, eravamo già in marcia nel pomeriggio del 26, per posizionarci la mattina del 27 sulle colline di Pra de Chiara, in prossimità di Fregona, al fine di scongiurare eventuali sganciamenti verso le località de Le Fratte e Anzano di componenti del Presidio delle Brigate Nere di Fregona, che frattanto veniva attaccato appunto dal Battaglione “De Luca”».

Avete trovato resistenza lungo il vostro cammino?

Le prime resistenza le trovammo la mattina del 28 Aprile, all’entrata di Cappella Maggiore, nella piazza principale del Paese, dove incontrammo un gruppo di tedeschi che molestava la popolazione. Li abbiamo subito affrontati e disarmati, e avviati al campo di raccolta predisposto presso le vecchie scuole elementari. Indi li abbiamo trasferiti tutti a Fregona, dove nel frattempo il Presidio di Brigate Nere aveva capitolato».

Lei risulta uno dei primi partigiani entrati a Vittorio Veneto? Come mai ha deciso di entrare in Vittorio Veneto?

«A differenza di Cappella Maggiore, dove il nostro intervento era stato pianificato dai Comandi, l’entrata in Vittorio Veneto fu una scelta del momento, dettata da urgenze pratiche e dall’incalzare degli eventi. Era accaduto che dopo aver portato a termine l’operazione di liberazione di Cappella, alcune staffette ci avevano informato della presenza a Costa di Vittorio Vento, in via Pontavai, presso la fattoria De Mori, di un forte contingente tedesco di una cinquantina di uomini più dieci ufficiali, ben intenzionati a resistere. Siccome via Pontavai non distava molto da Anzano, dove stavamo sostando in attesa di ordini, decidemmo concordemente con gli uomini di attaccare detto Presidio. E così entrammo in città».

Quali difficoltà ha incontrato nella Liberazione di Vittorio Veneto?

«Beh, Vittorio Veneto non era certo Cappella Maggiore. Qui c’era una grossa concentrazione di truppe e di comandi, sia fascisti della RSI che tedeschi. Non solo dovemmo neutralizzare il presidio di via Pontavai, ma in via Scrizzi ci scontrammo con una colonna di Brigate Nere della “Danilo Mercuri” in ripiegamento verso Conegliano. Erano un centinaio di uomini, armati fino ai denti e dotati di autoblindo, e non riuscimmo a fermarli nonostante due tentativi effettuati in via Scrizzi e poi in località Boschet (leggi: via Oberdan) , dove alcuni di noi riportarono anche delle ferite. E poi c’erano i tedeschi posizionati al Collegio Ricci, alla Caserma Gotti, in Duomo e a Villa Vianello. Ma alla fine, anche grazie all’aiuto delle forze territoriali che ci appoggiarono e di altri formazioni resistenti scese dal Cansiglio, riuscimmo ad aver la meglio e a liberare la città».

Ma i pericoli però non erano finiti …

«Effettivamente fin dal tardo pomeriggio del 28 avemmo sentore dell’arrivo di una forte colonna tedesca in ritirata proveniente da Conegliano; colonna che, se fosse riuscita ad entrare nel centro abitato, avrebbe messo a ferro e a fuoco tutta la città. Di conseguenza, per scongiurare tale eventualità, fin dalla sera del 28 ci recamm. o insieme alle altre formazioni sul Menarè, per tagliare i platani lungo la sede stradale ed ostacolare in qualche modo il passaggio dei tedeschi».

E come andò a finire tale circostanza…

«In primo tempo riuscimmo a fermare i tedeschi in località San Giacomo. Poi, come è noto, intervenne l’ aviazione alleata, che praticamente costrinse la colonna alla resa».

C’è un episodio di quei momenti che le è rimasto particolarmente impresso?

«Naturalmente il bombardamento ad opera dell’aviazione alleata, che battè il Menarè e dintorni per tutta la giornata del 29 Aprile. Per la verità in quel frangente io mi trovavo defilato, in centro città, comandato a coordinare le difese di Serravalle e sopra la Riva dei Mulini e la salvaguardia della Centrale di Cappella Maggiore. Ma ricordo ancora vividamente le ondate dei caccia bombardieri alleati che si avventavano sulla colonna, le raffiche delle mitragliatrici, lo scoppio delle bombe, e le lunghe colonne di fumo che si innalzavano nel cielo, visibili a molti chilometri di distanza».

Vittorio Veneto venne definitivamente liberata la mattina del 30 Aprile 1945. Cosa ha provato quel momento?

«Ho tirato un grosso sospiro di sollievo. La città era salva: era veramente finita».

Nel pomeriggio della stessa giornata arrivarono anche le prime avanguardie alleate, che assunsero subito il controllo della situazione. Tutti a casa, dunque?

«Per nulla. Anche se erano arrivati gli alleati, c’era bisogno del nostro aiuto per vigilare i prigionieri tedeschi e fascisti, per neutralizzare le squadre di nemici sbandati che vagavano ancora nelle campagne e per organizzare un minimo di amministrazione per quanto riguarda la raccolta di armi e materiali vari abbandonati dal nemico e la distribuzione di viveri alla popolazione civile. C’era così tanto da fare che rimanemmo in servizio fino ai primi di agosto».

Cosa si aspettava dalla fine della guerra e dalla Liberazione? E invece come andò a finire?

«Le cose non erano facili. L’Italia veniva fuori da anni di guerra ed era allo stremo: le strade erano a pezzi a seguito dei bombardamenti, i collegamenti difficili, le fabbriche chiuse o con difficoltà di riconversione, scarseggiavano i viveri e non c’era lavoro. Inizialmente, grazie alla mia militanza partigiana, trovai impiego presso una cooperativa di trasporti fondata da resistenti locali, la SCAVV, che utilizza veicoli requisiti ai tedeschi in fuga. Ma la paga era risicata e per riuscire a vivere dignitosamente fui costretto ad emigrare prima in Belgio per un anno come minatore, poi in Argentina e Canada, per dieci anni complessivi, come fabbro e meccanico. Solo nel 1960 fui in grado di ritornare in Italia e trovare un lavoro che mi consentisse di mantenermi dignitosamente, insieme alla mia famiglia».

A 70 anni di distanza, quale pensa sia l’eredità che la Resistenza lascia alle nuove generazioni?

«Penso che la Resistenza lasci anzitutto una grande eredità che è la libertà, intesa anzitutto come libertà di espressione, anche se oggi talvolta di questa libertà spesso si abusa. E poi l’attuale Carta Costituzione, che ci ha permesso di convivere pacificamente fino ad oggi e ha assicurato la promozione sociale ed economica a molti cittadini. E non mi pare sia poca cosa».

(Pier Paolo Brescacin, autore dell’intervista, è direttore scientifico ISREV

Istituto della Resistenza

di Vittorio Veneto)

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