«Noi, in lista per adottare un bambino russo bloccati da un anno a causa della pandemia»

Parla una coppia che, dopo anni di pratiche, a gennaio 2020 è stata finalmente “abbinata” a un piccolo. Ma il lockdown ha fermato tutto 

I GENITORI MANCATI

«Un anno fa siamo andati in Russia, abbiamo conosciuto nostro figlio: la cosa più emozionante che io e mia moglie abbiamo provato. L’avremmo voluto portare subito con noi a casa. Ma poi è arrivato il Covid 19. E ora non sappiamo più nulla»

Carlo e Monica, trevigiani, cedono all’emozione, faticano a trattenere le lacrime pensando a quel caldissimo abbraccio nel gelo dell’inverno russo. Sembrava il coronamento del loro sogno: dopo 4 anni di pratiche, carte, attese, paure avevano pensato davvero di avercela fatta, di trasformare in realtà il desiderio di costruire una famiglia. «E se prima eravamo preoccupati, adesso siamo disperati: avremmo dovuto concludere tutto in 6-8 mesi, è passato un anno e non si è mosso nulla. Ogni giorno che perdiamo con quello che per noi è già nostro figlio, noi lo sentiamo così dopo quell’incontro, non potrà mai essere recuperato».

Sono vittime anche loro – Carlo, Monica e il bambino – del coronavirus e dello stop imposto al mondo. E come loro altre coppie venete, trevigiane, padovane, veneziane, decine e decine – come centinaia in tutta Italia – per un figlio, specie in Russia e in Cina. Il sospiratissimo disco verde per il figlio da adottare, agognato per anni, si è rivelato una beffa.

E la paura è tale che la coppia, come gli altri papà e mamma “adottandi” – genitori incompiuti nonostante il loro sconfinato desiderio di donare affetto a piccole vite senza famiglia – non vuole i nomi veri. «Le autorità sono sensibili, temiamo che tutto possa saltare anche adesso che abbiamo conosciuto il bambino», dicono.

«Chiediamo solo che il virus non spezzi il nostro sogno di una famiglia. Abbiamo cominciato la procedura nel 2015, fra poco saranno sei anni, non vorremmo mai che tutto saltasse. Quello che dovrebbe essere un desiderio naturale per una coppia diventa un iter lunghissimo, snervante, logorante»

Monica e Carlo ripercorrono tutti questi anni. «L’idoneità ci è arrivata nel 2018, ma solo a gennaio 2020 siamo stati “abbinabili” a un bambino/a, e siamo subito partiti per la Russia, in un istituto che aveva non meno di 50 minorenni, dai 4 anni in su. Il ritorno a casa, a fine gennaio, era stato comunque carico di speranze: tutto faceva presupporre che in 6-8 mesi l’adozione sarebbe stato conclusa, e il bambino sarebbe stato con noi».

Nessuno, nemmeno loro, neanche gli istituti e le associazioni attive sul fronte delle adozioni internazionali – aveva fatto i conti con la pandemia. «Gli effetti del coronavirus sono stati un fulmine a ciel sereno», spiegano Carlo e Monica. «Avevamo altri mille documenti da fare, con gli uffici pubblici chiusi. Solo la sensibilità di qualche funzionario pubblico e l’intervento dell’assessore regionale ci hanno consentito a fin aprile di presentare tutti i documenti. Ma tutto era stato rinviato a ottobre, davanti al tribunale russo, dove la nostra pratica è stata infine accettata. Ma intanto la Federazione Russa aveva chiuso le sue frontiere, sospeso il rilascio dei visti turistici necessari per affrontare l’udienza».

E da allora, il nulla. «Abbiamo scritto a tutti, alla Commissione adozione internazionali (Cai), l’ente governativo che segue le adozioni, al presidente della Repubblica, al ministero degli Interni, anche al premier Conte», continuano. «Solo la Cai ci ha risposto assicurandoci che stavano lavorando per riuscire a farci avere visti speciali per poter entrare in Russia. Ma adesso siamo a gennaio e non si è mosso nulla. E poi sentiamo che invece coppie francesi sono riuscite a portare a termine l’adozione, in Russia: com è possibile?».

Il tema delle adozioni sarebbe uno degli scogli nell’agenda italorussa. Ma Carlo e Monica non vogliono nemmeno pensare a problemi politici, a complessi rapporti internazionali. «Per noi c’è un solo piano: quello dell’adozione, che è la cosa più bella che dei genitori possano fare», concludono «tutte le fatiche, i pianti, gli uffici pubblici che non funzionano e soprattutto i soldi che si spendono, non sono niente davanti ad un bambino che da 4000 chilometri di distanza ti dice: “Ciao mamma e papà vi voglio bene”. Perché poi è terribilmente frustrante sentirsi dire “quando venite a prendermi?”. E non potergli dare una risposta. Alle istituzioni, tutte, diciamo che non possiamo pensare si siano dimenticate che ci sono bimbi che dalla vita hanno avuto poco e che con l’adozione possono cominciare a vivere una vita normale». —



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