«Noi, contadini veri» Gli eretici del Prosecco

Produzione minima, vinificazione in proprio, amanti dei vecchi vitigni C’è chi rinuncia alla fascetta della Doc, chi vuol salvare la Bellussera  
TREVISO. Felicemente piccoli, lontani dalle logiche di consorzi e categoria, senza alcuna pretesa di aumentare la produzione di bottiglie. Orgogliosi al punto che qualcuno di loro rinuncia addirittura alla fascetta della Docg: «Il mio vino non ne ha bisogno». Sono gli «eretici» del prosecco, distanti dal glamour da Costa Smeralda che avvolge il vino più venduto al mondo, eppure ricercati dagli esperti e dai blogger di settore perché espressione di una nicchia: grande qualità, racconto autentico, una giusta esclusività. Adesso si sono costituiti nell’associazione dei Vignaioli Indipendenti Treviso (V.I.T.), braccio locale della Fivi, la Federazione italiana vignaioli indipendenti. L’essenza è triplice: conservare il terroir, difendere il paesaggio, fare la gioia del consumatore. Una filosofia che descrive il vignaiolo come «una delle figure centrali del vino contemporaneo». Nell’era della globalizzazione commerciale degli eretici, visionari ma con i piedi per terra.


Il loro leader è
Luca Ferraro
, vignaiolo blogger di Bele Casel – una passione infinita per il Col Fondo, il vino originario, seimila seguaci su twitter e una capacità di raccontare attraverso i social il ritmo delle stagioni e soprattutto il lavoro dei vignaioli.


Delegata per Treviso è
Désiree Pascon Bellese
, che a Roncadelle coltiva i rossi del Piave e difende la Bellussera, il gigante della viticoltura, lo storico impianto che prevede solo una lavorazione manuale e dunque è messo fuori squadra dall’evoluzione industriale della viticoltura. Ci si trova una sera da Malibran a Susegana e sembra un consiglio di famiglia, di quelli che si facevano una volta nelle case quando c’era una decisione da prendere: «Il nostro obiettivo è di riuscire a trasmettere la percezione di cosa c’è dietro e dentro una nostra bottiglia. Non so se ci riusciamo sempre, ma di sicuro ci proviamo tutti i giorni» spiega
Maurizio Favrel
, il padrone di casa.


Per il prosecco nutrono un rapporto di giusta distanza: farne poco, farlo in proprio e farlo bene, perché quando sentono parlare di un miliardo di bottiglie sale loro l’orticaria. «Per riconoscerci basta guardare braccia e volti: noi siamo abbronzati, stiamo sempre in vigna. Gli altri sono dei vignaioli pallidi» scherza
Marco Rosanda
, 41 anni, che a Colbertaldo va orgoglioso del suo Col del Lupo, appena quattro ettari dentro la Docg.


E aggiunge: se la Doc del prosecco «è la fabbrica del vino, noi siamo gli artigiani: nessuna concorrenza, preferiamo lavorare di qualità e nel rapporto con il consumatore, che vogliamo conoscere, frequentare, incontrare. Non diventeremo mai ricchi, ne siamo consapevoli».


Mediamente, le loro aziende lavorano meno di dieci ettari e producono meno di centomila bottiglie. «Il mio obiettivo è di portare dentro ogni bottiglia tutto quello che ho in vigna: un prodotto riconoscibile e naturale, una storia familiare, un territorio unico» spiega
Nicola Merotto
, 35 anni, una vigna di sette ettari a Col San Martino, una laurea triennale in Enologia.


«Quando ho preso in mano il vigneto ho detto: papà, ascoltami. Facciamo così, ora seguimi tu» aggiunge
Martino Tormena
, 30 anni, laureato. Dieci ettari, trentamila bottiglie che escono con l’etichetta del Colle Mongarda: «Siamo a Col San Martino, il microclima collinare è migliore, ho tolto subito il diserbo e i prodotti di sintesi. L’ho fatto perché l’ho studiato e perché ci credo. Certo, costa di più ma è la strada del futuro».


«Sono sempre stato contrario alla Doc, anche se mi rendo conto che ha cambiato gli equilibri della zona – riflette
Michele Rebuli
, 41 anni dell’azienda Bastia di Saccol di Valdobbiadene –. Fosse dipeso da me avrei agito con gradualità, salvaguardando di più la zona storica, perché quello che manca oggi è proprio una comunicazione efficace sulle differenze tra la Docg e la Doc. Poi la deriva che sta prendendo il prosecco è che sembra di vendere una bevanda. Non dev’essere così». Poi aggiunge: «Prendiamo il Cartizze: il fenomeno prosecco lo ha distrutto, addirittura è stato usato come sconto. E invece poteva essere il cru del cru, copiando dai francesi».


Matteo Bresolin
, 26 anni, dottore in Economia aziendale, ammette di «essere stato tirato dentro» nell’azienda di famiglia, dieci ettari a Crespignaga di Maser con i quali punta quest’anno alle 15 mila bottiglie: «Sono certificato Bio sin dall’inizio, abbiamo quattromila piante di ulivo, cerchiamo un equilibrio aziendale che non dipenda solo dal prosecco». Poco distante
Simone Morlin
, 40 anni, abbina il vigneto a un’avviata attività di agriturismo: «Sempre più clienti del bed and breakfast chiedono il nostro vino. Stiamo provando i vitigni resistenti per renderci autonomi dai trattamenti. Certo, l’80% è prosecco, ma il rosso rappresenta il 20%. E non basta più». «Personalmente sono preoccupato – aggiunge
Ruggero Ruggeri
, 40 anni, della Ruge di Santo Stefano di Valdobbiadene, 45 mila bottiglie – ormai sembra tutto un tappeto viticolo, sparisce il seminativo, spariscono le coltivazioni da frutto e questo non va bene, è un impoverimento. Il territorio va rispettato, la monocoltura è sbagliata e rischia di portarci su un crinale pericoloso. Se crolla il mercato mancano le colture sostitutive».


Arturo Vettori
, 55 anni da Rua di Feletto, aggiunge: «Non sono convinto che il bio sia il futuro, anzi può diventare un alibi per tanti. E’ poco differente da un convenzionale e soprattutto è replicabile dall’industria. L’agricoltura 3.0 è questa: convenzionale evoluto e genomi più resistenti». Ognuno porta la sua storia, con semplicità e chiarezza:
Marco Piazza
, 39 anni della Rosa Natale di Colbertaldo, cinque ettari e 15 mila bottiglie appena,
Matteo Vettoretti
, 36 anni, il piemontese che a Montebelluna ha preso l’azienda Al Ponte e punta sui rossi,
Stefano Follador
, 29 anni, che viene da esperienze in Argentina e in Napa Valley e investe su verdiso e perera.


Con dieci ettari lungo il Piave, tra Roncadelle, Salgareda e Oderzo,
Enzo Bellese
e la moglie
Désirée Pascon
cantano fuori dal coro: «Solo un quarto della nostra produzione è prosecco, il resto sono rossi: raboso, refosco, cabernet, merlo. Del resto esiste una domanda sui rossi che faremo bene a cogliere, invece di estirpare vitigni perché conviene vendere l’uva per il prosecco. Mi preoccupa invece la scomparsa della bellussera e del verduzzo trevigiano, i pochi investimenti sul raboso».


I prezzi dell’uva sono uno dei temi chiave: un chilo di uve cabernet vale sessanta centesimi, un chilo di uve glera almeno il doppio, anche un euro e sessanta se nella Docg storica. Se il mercato sta espellendo tutti i sostituti del prosecco, i viticoltori della Fivi resistono alla tendenza. Come salmoni che risalgono la corrente.


«Da adolescente odiavo la terra, volevo scappare e ho studiato per fare il geometra. Ma alla fine sono tornato, il richiamo è stato troppo forte. Sto provando il bio» risponde
Denis Boscaratto
, 39 anni di Susegana, quattro ettari e 12 mila bottiglie.
Nicola Maggi
, con la moglie
Silvia Fiorin
a Pieve di Soligo, addirittura rifiutano la fascetta: sei ettari a prosecco, tre a kiwi: «Ci siamo tolti dalla Docg, facciamo vino bianco frizzante Col Fondo e non ci interessa altro».
Massimo Collavo
, 46 anni, a Valdobbiadene, ha accantonato una laurea in chimica per dedicarsi al prosecco naturale: «Dal 2010 facciamo agricoltura biologica, produciamo trentamila bottiglie. La Doc ha occupato uno spazio commerciale importante, penalizzando la Docg. Capisco che è difficile trasmettere le differenze, ma la Docg si è chiusa la strada da sola». Il proprietario di Col Miotin, a Solighetto, lavorava in un mobilificio: «Poi l’azienda ha ridotto il personale e io ho dovuto ricominciare – spiega
Antonio Bottega
, 46 anni – Così sono tornato a fare quello che facevano i miei vecchi. Ho ripristinato i vigneti storici, perera, verdiso, bianchetta».


Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso