«Nel Vajont ho perso tutta la mia famiglia Non riesco a perdonare i responsabili»

Mario Pozzobon di Anzano si salvò per miracolo. Nella catastrofe sono morti genitori e fratelli: «Il dolore non si rimargina»
Calzavara Vittorio Veneto Mario Pozzobon superstite del Vajont Paese di Pirago dove abitava
Calzavara Vittorio Veneto Mario Pozzobon superstite del Vajont Paese di Pirago dove abitava

L’INTERVISTA

Mario Pozzobon quella maledetta sera del 9 ottobre 1963, ha perso la mamma, il papà, la sorella e il fratello. Sono passati 56 anni dalla catastrofe del Vajont, il dolore non si rimargina. Nella casa di Anzano, quella che Mario si costruì dopo aver perso la casa e gli affetti a Longarone, il dolore risuona. Mario lo tiene stretto tra le mani: accarezza la foto con i quattro volti sorridenti della sua famiglia è tutto quello che gli resta dei suoi cari.

Mario, è mai riuscito a perdonare?

«No. E lo sa perché? Loro, i responsabili, non hanno mai chiesto di essere perdonati. Anzi, hanno sempre sostenuto di non aver sbagliato nulla».

Perché dopo aver perso tutto ha deciso di stabilirsi ad Anzano?

«Quella notte mi sono salvato perché lavoravo a Marghera. Dopo aver perso tutto, sono andato dall’Enel e ho detto loro: voi avete ucciso la mia famiglia, non ho più nulla, almeno trovatemi un lavoro. Mi hanno assunto alla centrale di Nove, sopra Vittorio Veneto, e una volta sposato ho deciso di comprare casa ad Anzano».

A Nove ogni giorno s’imbatteva sul plastico della diga del Vajont che ancora viene conservato. Quante volte l’ha maledetto?

«Pensi che l’Enel mi affidò anche la guida dei visitatori alla centrale. Dovevo spiegare quel “modellino”. Ogni volta era un colpo al cuore».

Che ricordo ha di quella notte?

«Mi trovavo a Marghera per lavoro. Faceva il pendolare da Longarone, a Marghera lavoravo come perito elettronico. Partivo il lunedì e tornavo il sabato. Nel 1963, avevo 23 anni: grazie ai sacrifici dei miei genitori avevo conseguito un diploma di perito elettrotecnico e, dopo aver fatto il militare, avevo trovato un posto di lavoro nel Veneziano. Separandomi a malincuore dagli affetti, ogni fine settimana facevo il pendolare tra Marghera e Longarone, dove lasciavo la mia famiglia, gli amici, la morosa».

Quando ha saputo che la famiglia era stata spazzata via?

«Solo quando mi sono svegliato il 10 ottobre. Vengo a sapere del disastro dal giornale. Corro a Mestre in stazione per prendere il primo treno. Ma i treni passeggeri non viaggiano: sui binari circolano solo treni merce e convogli pieni di militari. Riesco a partire solo nel pomeriggio, ma il treno si blocca a Ponte nelle Alpi. Allora, comincio a salire a piedi verso Longarone: sono dieci chilometri di angoscia. Che diventa disorientamento. Quando arrivo a Longarone, non trovo il paese: non c'è più niente davanti a me. Non riconosco la terra che conosco così bene. Della mia frazione, Pirago, è rimasto in piedi solo il campanile. Tutto il resto è fango, silenzio. Non riesco a capire neppure dove possa essere stata sepolta quella che era la mia casa. Ma fino all'ultimo spero».

E dopo?

«Dopo aver vagato sulla piana distrutta, raggiungo la frazione di Pians, dove abitava la mia ragazza: Caterina Bratti. Lei e la sua famiglia si sono salvati: dopo aver sentito la sferzata di vento che accompagnava l'onda micidiale del Vajont, brancolando nel buio, si sono arrampicati sulla montagna. Vengo a sapere che i miei sono scomparsi».

L’onda del Vajont non gli aveva lasciato scampo? «No, li ha uccisi lo Stato. Perché gli studi sul modello di Nove l’avevano previsto. Ho riletto di recente l’arringa che fece l’avvocato Canestrini, difensore di parte civile, e mi ha fatto venire la pelle d’oca per come spara a zero contro gli imputati, che poi sono stati condannati a pene irrisorie, accampando l’impossibilità della previsione o altro…».

Oggi parteciperà alla commemorazione al cimitero di Fortogna?

«Ogni anno il sabato precedente la ricorrenza facciamo una veglia alla diga, organizzata dall’associazione Cittadini per la memoria del Vajont. In cimitero ci vado da solo, con la famiglia. Alle cerimonie ufficiali del 9 ottobre non ci vado, perché arrivano autorità, ministri, presidenti, sindaci con la fascia e quant’altro. E poi per tutto il resto dell’anno non si vede nessuno: questo mi fa veramente pena. Invece il Vajont andrebbe ricordato tutti i giorni: ci sono stati duemila morti». —

Francesco Dal Mas

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