Mix di psicofarmaci per due ragazzine a Treviso, lo psicologo: «È una richiesta disperata di aiuto»

TREVISO. Esistono tanti modi per gridare il dolore. Isolati nella cameretta davanti al pc, il corpo distrutto dall’anoressia oppure da un avvelenamento, come è accaduto ieri a Castelfranco. Due ragazzine hanno ingerito una dose massiccia di antidepressivi, finendo in condizioni gravissime.
L’essere in coppia a condividere un gesto così estremo lo rende inusuale, ne amplifica ancora di più la portata e disorienta il mondo degli adulti. Come è possibile che una non abbia fermato l’altra? Perché arrivare a un simile atto anziché provare a trovare insieme una soluzione?
«Il progetto di una coppia adolescenziale di fidanzati o di amici può essere molto forte sia in senso creativo, sia in senso distruttivo. Insieme si possono compiere degli atti che, in modo isolato, la mente individuale non avrebbe mai portato a termine da sola», spiega Matteo Lancini, psicologo e presidente della Fondazione “Minotauro” di Milano che si occupa di disagio giovanile.
Nel suo ultimo libro “Il ritiro sociale negli adolescenti – La solitudine di una generazione iperconnessa”, edito da Raffaello Cortina, il dottor Lancini ha condensato la sua lunga esperienza di clinico al fianco dei sopravvissuti al suicidio, giovani vivi per miracolo perché l’ambulanza è arrivata prima che le pillole fermassero il cuore.
«La storia di ogni persona è unica e bisogna sempre capire cosa c’è dietro, vale anche per la vicenda di queste due ragazzine del Trevigiano» sottolinea Lancini. Ci sono angoli dell’animo che restano insondabili leggendo la cronaca spicciola, e quasi sempre colgono di sorpresa anche i genitori e gli insegnanti. La scuola, lo spritz con gli amici, le foto su Instagram. Tutto normale, almeno in superficie.
«Nella nostra società il fallimento non è contemplato. Quando un adolescente prova vergogna per non aver realizzato tutte le aspettative che aveva immaginato per sé stesso, può decidere di uscire dalla scena in tanti modi: c’è chi si suicida socialmente e allora la persona sparisce nella cameretta davanti allo schermo di un computer, chi rifiuta il cibo, chi si ferisce con l’autolesionismo e chi uccide il corpo», prosegue Lancini. «Il suicidio è un gesto comunicativo potentissimo perché è il tentativo disperato per tenere in vita un sé fragile ma ancora ideale».
In fondo è un modo per urlare al resto del mondo: guardami, aiutami, io esisto.
«Di suicidio nella nostra società si parla poco e malvolentieri perché si teme l’effetto emulazione, e invece bisognerebbe parlarne molto di più», aggiunge Lancini. Solo così un evento devastante potrà essere trasformato in resilienza. Le famiglie sono le prime ad essere chiamate in causa.
«Bisogna lavorare con i propri figli per aiutarli a elaborare il dolore, qualunque esso sia, dandogli una voce» suggerisce Lancini.
La scuola dovrebbe fare lo stesso. «Ragionare in classe sul tema della morte, che oggi tutti rimuovono, sarebbe un importante passo avanti in un contesto dove contano solo la popolarità, la bellezza, il successo», evidenzia l’esperto. «Occorre vincere l’imbarazzo: mamme, papà e insegnanti devono trovare il coraggio di parlare con i giovani quando il dolore raggiunge livelli così eclatanti».
Secondo Lancini non ci sono altre vie d’uscita: «La sfida è costruire un prodotto culturale che rivolga ai giovani questa domanda: perché si pensa a morire invece di darsi il tempo per vivere?».
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