Luciano Cecchinel resuscita il valore del dialetto

Appuntamento poetico con il debutto di “Sanjut de stran” (Singhiozzi di strame) di Luciano Cecchinel, un elegante volumetto bianco, edito da Marsilio, ottava pubblicazione in versi del poeta di Revine Lago. “Sanjut de stran” verrà presentato alle 20.30 di lunedì 16 aprile a Tarzo, nell’aula magna della scuola media. La presentazione è a cura di Pietro Gibellini, ordinario di letteratura italiana a Ca’ Foscari e di Matteo Vercesi, dottore di ricerca in Italianistica e Filologia classico-medievale presso la stessa Università. A recitare le poesie di Cecchinel saranno le voci degli attori Monica Stella e Enzo Capitanio, con intermezzi musicali a cura del Circolo Musicale di Tarzo. “Sanjut de stran”, uscito in libreria dal 4 aprile, quasi si riaggancia e va a completare la prima opera di Cecchinel, quel “Al tràgol jért” del 1988, che lo ha, da subito, “consacrato” a fianco di Andrea Zanzotto nella produzione di versi in dialetto veneto. Un dialetto che è lingua, unico filo conduttore di un’istanza in cui la natura arcaica, le tradizioni, il paesaggio e l’idioma, cercano di resistere ad un progresso che tutto travolge, o meglio, che tutto ha già travolto, interpretando gli ultimi versi di Cecchinel.
E qui la grandezza del poeta recupera, resuscita e restituisce i luoghi (tràgoi, larìn, burigòt) e agli “ultimi rimasti” (scodraz) dedica una sezione in cui “putinòt smarì” (spaventapasseri), “na vecia a stròz”, un “zimitèrio”, le “case vècie”, la “sgnapa da troi”, morti nella realtà, riprendono vita. La raccolta “Sanjut de stran”, è divisa in sei sezioni, aperta e chiusa da una singola poesia e contiene una lunga prefazione a firma di Cesare Segre. Il professor Segre, filologo, semiologo, docente emerito all’Università di Pavia e insigne critico letterario, non lesina parole di aperto apprezzamento per l’opera di Cecchinel: «Quello che vorrei ottenere è di convincere i lettori che con Cecchinel siamo al livello più alto della poesia...».
Nella sua prefazione Segre affronta, analizza, scandaglia, quasi mette a nudo, in una ventina di pagine, il significato profondo dei versi del poeta trevigiano, confessando che a un “foresto” come lui «è difficile discernere gli effetti fonici, che per un nativo sono più espressivi». In “Sanjut de stran” il poeta di Revine parla di natura, deliri (“zavariamènt”), dei segni e della memoria lasciati dal tempo, dei rituali e dell’eterno dualismo buio-luce, dove alla realtà del buio l’autore non fa corrispondere, necessariamente, un valore negativo. Di certo, negativo, non lo è per i “ciòchi” (gli ubriachi), quei “do de la soa” (i depressi), quei “fòra” (quelli fuori), protagonisti della sesta e ultima sezione, “saor de gnent” (sapore di niente), che si chiude con la poesia “L’ultimo vìver”, emblematica del realismo-pessimismo di Cecchinel.
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