In 10 anni fecero una nuova città

Brunetta: la catastrofe tra il 1944 e il ’45 ha cancellato per sempre, assieme ai suoi abitanti l’impianto quattrocentesco del centro. E qualcuno voleva tirar giù la “vecchia topaia” dei Cavalieri

I morti di una Treviso straziata, le macerie. E la ricostruzione di una città che dalle bombe e dal dolore rinasce e cambia volto, in un centro storico martoriato. Domani ricorre il 70° anniversario del 7 aprile 1944, il Venerdì Santo che vide il più terribile dei bombardamenti sulla città. Sette furono i raid più devastanti, nel giro di nove mesi. Morirono almeno 1600 trevigiani (c’erano meno di 50 mila abitanti, allora), e 123 fra bambini e neonati.

Da quell’orrore nacque una nuova città: piazza Borsa, largo Totila, piazza Pio X. Non c’erano, prima, come via Toniolo, «memento» delle bombe che finirono nel rifugio antiaereo di via Fiumicelli, uccidendo quasi 300 persone. Come via Bergamo, vicino a Madona Granda. Come via D’Annunzio, e lo stesso skyline delle riviere. Sparirono monumenti, se ne salvarono altri: in frantumi o distrutti capolavori dell’arte, ma qualcosa fu recuperato. Ci guida, in questo viaggio nella Treviso di oggi nata da quel bombardamento, Ernesto Brunetta, 80 anni, testimone prima che storico. «Fu bombardata anche casa mia in via Bonifacio. Le bombe erano democratiche per gli edifici, non per le persone. I ricchi sfollavano in campagna, pagando i contadini, i poveri dovevano arrangiarsi».

. Brunetta, le bombe hanno stravolto Treviso. Ed è nata un’altra città.

«Si è perduto per sempre l’impianto quattrocentesco, un dedalo che sopravvive oggi solo in via Manin e via Ortazzo, a S.Caterina, fra San Vito e il Duomo. Sparirono anche colmelli in periferia, ricordo quello attorno alla bottega di alimentare dei fratelli Zoppè, a San Pelajo. Oggi lì c’è la pizzeria da Pino».

Subì danni l’82 per cento degli edifici.

«Attenzione, è un dato da pesare, mette insieme case rase al suolo e quelle con danni minimi. In centro fu colpito il 35% degli edifici. E il giusto omaggio al bombardamento del 7 aprile non deve far dimenticare gli altri raid: 14 maggio, 10 ottobre, i tre di Natale, infine il 13 marzo 1945. Per non parlare delle mitragliate, delle incursioni dei “pippo”. Gli inglesi volevano terrorizzare, colpendo a tappeto, gli americani erano più chirurgici e selettivi. Ma non c’erano i laser, il margine di errore era di 300 metri, figurarsi».

Dove partire per questa «nuova Treviso»?

«Dall’asse fra la stazione e corso del Popolo, allargato alle riviere. Non c’è quasi più nulla, al ponte di San Martino c’era il dazio. Lì vicino c’era il palazzo del consiglio dell’economia, detto anche palazzo Borsa. Oggi lì c’è la stazione delle corriere. Tutto nuovo: lo slargo di via Roma davanti agli hotel, il palazzo Ina, i condomini sul Lungosile. E poi non c’erano né largo Totila, dove c’era il provveditorato, né piazza Borsa: c’era l’hotel Stella d’Oro. Le strade allora salivano a Sant’Andrea, non c’era via Toniolo, “aperta” delle bombe. Come piazza Borsa, se ci pensiamo. Non c’era più nulla, lì, fino al fiume».

Poi il cuore del centro.

«Sì, e non solo i Trecento: l’area di San Vito, quella di piazzetta Della Torre, piazza Duomo. Si salvarono il Duomo , l’ex tribunale, casa dal Corno, ma non il palazzo del Capitolo. Fra Duomo e via Canova era tutto raso al suolo».

Terza area: San Nicolò.

«Una foto è terribile: all’inizio di via San Nicolo restò in piedi una sola casa. Spazzata via la zona delle calli, dalla chiesa al Duomo, compresa la famosa cae de Oro. E fu distrutto il seminario, verso il Sile. Da quel nulla nascono letteralmente piazza Pio X e via d’Annunzio. Poi a Natale i raid colpirono case anche a porta Calvi e in città giardino».

E Madona Granda?

«Fu colpita il 14 maggio. La chiesa rimase senza pareti, ma furono colpiti edifici fino in piazza del Grano e lungo le mura fino a Carlo Alberto».

Arte storia, monumenti. Cosa si è perso?

«Molto, moltissimo. Gli affreschi di palazzo dei Trecento, poi recuperati in parte da Botter, i capolavori di Tomaso da Modena danneggiati. E le chiese sventrate, come Madona Granda, i palazzi antichi, fregi, affreschi. E poi la loggia dei Cavalieri: qualcuno a sinistra voleva tirarla giù, la chiamava “vecchia topaia”: per fortuna non fu ascoltato».

Certi accostamenti urbanistici ed edilizi oggi stridono: un giudizio sulla ricostruzione, oggi?

«Errato giudicare esteticamente. C’era l’urgenza di dare un tetto alla gente, di ricostruire, il resto passava comprensibilmente in secondo piano. Il primo piano di ricostruzione è targato Rsi, ottobre 1944, incaricarono Alpago Novello. Ma toccò a Vittorio Ghidetti, del Pci, primo sindaco del Cln, definire il piano dopo la guerra. Quattro professionisti coadiuvarono Evandro Angeli, il mitico ingegnere capo del comune».

Parla del piano estetico?

«No, a quello urbanistico. Pensavano a uno sviluppo della città a Est e Sud, lungo il Sile: attracchi per le barche, porti fluviali, servizi e industrie. In pochi anni era già il passato»

Una ricostruzione veloce

«Vero. Già nel 1956 il sindaco Alessandrro Tronconi, della Dc, inviava una relazione a Roma: obiettivi nettamente superati. In soli 10 anni».

Il simbolo è lo «scatolone» della Camera di Commercio?

«Venne Segni, nel 1955, a inaugurarla. Ma a noi trevigiani resterà sempre nel cuore la strepitosa impresa del 1948, quando tirarono su la parete di palazzo dei Trecento. Un’opera eroica, titanica».

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