Gajo: è finita l’epoca dei grandi sponsor

«E’ semplicemente finita un’epoca. La famiglia Benetton ha dato moltissimo allo sport trevigiano, coronandolo di trionfi e di successi. Adesso, molto semplicemente, è cambiato il mondo, questa crisi morde pesantemente le nostre imprese e il nostro sistema economico. E anche gli industriali pensano di più alla bottega».
Giovanni Gajo, presidente di Alcedo, è uno degli uomini che meglio conosce pregi e difetti del mondo imprenditoriale del Nordest. Dopo aver fondato Gajo & Associati, ha contribuito alla nascita di Finanziaria internazionale e, poco più tardi, di 21 investimenti dove si è fatto le ossa Alessandro Benetton. Pochi anni fa è stato chiamato alla presidenza della Marzotto per gestire una delicata fase di passaggio generazionale. Dalla poltrona di presidente di Alcedo, il fondo di private equity, gode di un osservatorio privilegiato sul rapporto tra le imprese e il proprio territorio. Conosce Gilberto Benetton praticamente da sempre.
«Da giovani andavamo a giocare alla chiesetta del Sacro Cuore, a Treviso. Lui, che è più alto di me, amava la pallacanestro. Forse la passione per l’investimento sportivo è nata proprio da lì».
Più dispiaciuto o sorpreso di questa scelta?
«Non lodo né biasimo questa loro decisione. I Benetton hanno fatto moltissimo per lo sport trevigiano: pensiamo ai titoli conquistati, al Palaverde, alla Ghirada. Berlusconi volle sorvolarla con l’elicottero per capire cos’era la città dello sport. Treviso è stata una capitale dello sport».
Possibile che dopo trent’anni nessun imprenditore di Treviso apra il portafogli per salvare il basket?
«Ad essere onesti c’è anche il timore referenziale per chiunque venga dopo Benetton. C’è il rischio concreto di fare brutta figura».
Tutta colpa della crisi, dunque?
«La crisi che stiamo attraversando non è né semplice né breve. Sono quattro anni che viviamo nell’incertezza, e questo vale dal più grande industriale all’ultimo dei lavoratori. Nessuno sa come e quando andrà a finire».
L’etica di un imprenditore si misura anche attraverso il grado di impegno sociale verso il territorio, non crede?
«Certo, ma è del tutto naturale che, in questo contesto, tutti rivolgano le proprie energie all’impresa. Lasciando le attività che non danno profitto, magari legate a un impegno sociale come questo».
Fosse accaduto prima della crisi sarebbe diverso?
«Quando le cose vanno bene, c’è maggiore sensibilità per l’impegno sociale. Quando le cose vanno male è tutto più difficile. Gli imprenditori stanno semplicemente concentrandosi sulla propria attività. Ma la risposta è sì: se i Benetton avessero mollato quattro anni fa, prima dello scoppio della crisi, ora sarebbe più facile trovare uno o più successori».
Non la sorprende nemmeno l’apatia del mondo imprenditoriale trevigiano?
«No, non mi stupisce più di tanto. Stanno dedicando maggiore attenzione all’impresa di riferimento perché la situazione è difficile. E di questi tempi molti imprenditori pensano di aver esaurito la propria dimensione sociale garantendo occupazione».
Nessuno è mai venuto a chiederle un’opinione sul futuro del basket?
«Sono un uomo di sport, anche se mi piace più praticarlo che gestirlo. Ma se qualcuno mi avesse chiesto un’opinione, un anno e mezzo fa, non so se avrei incoraggiato i miei interlocutori ad intraprendere una strada del genere. La gestione dello sport è difficile, bisogna conoscere il mestiere e metterci dentro, oltre che passione e soldi, anche competenze manageriali non banali».
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso