Follina, gli ultimi frati senza saio «Ma questa abbazia è viva»

Francesco, Gildo, Michele ed Edson i padri Servi di Maria rimasti a custodire il complesso cistercense Eppure la chiesa è méta di fedeli da mezzo Veneto, presto pronta la foresteria per i pellegrini
Di Andrea De Polo

FOLLINA. In un contesto del genere, con il monastero medievale appoggiato alle montagne, la pioggia fitta di un mercoledì mattina e la basilica gotica vuota, buia e fredda, come minimo uno si aspetterebbe di trovare i frati (almeno uno dei cinque rimasti) con il saio e i sandali. Un’atmosfera, insomma, da “Il nome della rosa”. E invece, quando arrivano, i frati dell’ordine dei Servi di Maria, che da oltre un secolo amministrano l’abbazia cistercense, assomigliano…a degli impiegati. Altro che sandali: l’abate, Padre Enrico Maria Rossi, è alle prese con le bollette e con una telefonata urgente nel suo ufficio. Ha appena risposto ad alcune email. Padre Francesco Rigobello (abate dal prossimo 30 ottobre) indossa una camicia e un maglioncino, sembra un maestro di musica (e in realtà una volta lo era), e accompagna i visitatori tra le stanze in cui ancora oggi vivono i frati. «No, io non indosso il saio normalmente, anche se ce l’ho», spiega Padre Francesco, «ma in fondo, anche Gesù Cristo risorto non aveva alcun segno distintivo. È la vita che dimostra chi sei. Un papà che guida una famiglia che segni particolari porta nell’abbigliamento?». Che l’abbazia di Follina, da cent’anni casa dei Servi di Maria, rischi seriamente di rimanere vuota, lo sanno anche i pochi frati che oggi ci abitano. Padre Enrico sta per essere trasferito a Siena. Padre Ermenegildo ha 87 anni, Padre Michele 82, Padre Francesco 73. E poi c’è Padre Edson, boliviano di 38 anni, che mercoledì mattina alle 9 sta celebrando la messa nella cappella del chiostro. Eppure ci sono più fedeli che in tante messe domenicali di paesi vicini: a Edson vogliono bene perché il frate, domenica scorsa, ha accettato di celebrare la messa per la chiusura della stagione del rifugio Posa Puner, sulle montagne di Cison di Valmarino, quando nessun altro parroco se l’è sentita (questione…di fisico). Nel chiostro si vedono anche due suore indiane della Congregazione dell’Immacolata Concezione, abitano in una casa vicina e quando possono danno una mano ai frati. Totale: sette persone, di cui due molto anziane e una in partenza, per un’abbazia pensata per comunità di decine di monaci. Non è un caso che la vecchia foresteria, dove una volta dormivano i frati, sia un cantiere: diventerà ostello dei pellegrini. I frati oggi mangiano, vivono e dormono nell’ala Ovest, più moderna e più piccola. C’è il refettorio storico, nella parte antica, a favore di turisti. E c’è il refettorio moderno, utilizzato oggi, che Padre Francesco chiama semplicemente sala da pranzo. Sul tavolo ci sono quattro piatti. «I refettori danno l’idea di una grande comunità» spiega il prossimo abate di Follina «noi siamo pochi, siamo una famiglia. Questa è la nostra casa, ognuno di noi fa la sua vita ma ci sono anche dei momenti in comune, la preghiera tre volte al giorno, i pasti e le riunioni. Facciamo quel che possiamo». Ma il pericolo che l’abbazia si svuoti del tutto quanto è concreto? «Può succedere, quante abbazie sono diventate un museo? Però qui la comunità è viva, il luogo è bello, tutti ci tengono. La decisione, in ogni caso, spetta sempre al nostro ordine. Noi obbediamo. Sono arrivato qui dopo quarant’anni a Trieste e venti a Milano, e sono originario di Monte Berico. Dobbiamo essere pronti a tutto, anche ad andarcene». La presenza più numerosa all’abbazia di Follina in un mercoledì mattina è quella degli operai che stanno riparando il tetto e la vecchia foresteria. Le intenzioni della diocesi sono chiare. Diventerà un sito di turismo religioso, anche perché è al centro di ben due candidature a Patrimonio Unesco: quella delle colline del Prosecco, e quella del circuito delle abbazie cistercensi in Italia. I frati, però, resistono: «Noi facciamo quel che possiamo» ripete Padre Francesco «Dio ci ha promesso che se crediamo riusciremo a fare cose più grandi anche di Lui».

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