Farra di Soligo, è morto Bruno Donadel: le sue colline come presepi

FARRA DI SOLIGO. L’ultimo sorriso deve averlo riservato alle sue colline, accolto finalmente a due passi dal suo Borgo Campestrin, il suo ombelico. Da quell’orizzonte ha raccontato e descritto come pochi il paesaggio di questa terra «prima» del benessere.
Il pittore Bruno Donadel è morto l’altra notte all’età di 89 anni. Da qualche giorno era ricoverato nella struttura residenziale di Soligo, dopo un lungo peregrinare sanitario seguito all’ictus che lo aveva piegato nel dicembre dell’anno scorso. Assecondato nel desiderio di spegnersi tra le sue colline, proprio mentre si accendono i colori dell’autunno che conduce a Natale, come in uno dei suoi paesaggi dalla inconfondibile impronta.
Nato a Soligo il 16 marzo del 1929, quinto di nove fratelli di una famiglia di mezzadri, era cresciuto alternando il lavoro nei campi alla passione della pittura, inseguita tenacemente contro la volontà del padre Virgilio, che ne reclamava le braccia, e l’indulgenza della madre Virginia. Dedicando ogni momento libero ai pennelli, Donadel riesce solo più tardi a frequentare la Scuola di Disegno di Giovanni Zanzotto, padre del poeta. Poi assorbe tecnica dal ritrattista Alfredo Serri ed altri, stringe amicizia con il gallerista veneziano Carlo Cardazzo, partecipa ad esposizioni insieme ad opere di Picasso, De Chirico, Carrà, Guidi, Matisse, Morandi e Sironi. Ma a Donadel quel mondo - dei galleristi, dei critici, dei sapienti in genere - non piace per niente. Nonostante riflettori e specchi lo reclamassero, resiste alle sirene. Anche il premio Diomira, conquistato nel 1956 per i disegnatori under 30, non gli fa cambiare idea e lui se ne ritorna a Soligo. Libero e autentico. Con la sorella Luigia ha vissuto nella piccola casa di campagna, tra pennelli e cavalletto, la stufetta a legna accesa. Alla morte della sorella, ha chiesto semplicemente di restare nell’unico posto dove si sentiva bene, mentre tutto intorno cambiava.
I corpulenti buoi che solcano la nuda terra con l’aratro, le donne e gli uomini che s’ inchinano sui campi, gli animali da cortile dai colori fiammeggianti che punteggiano le case dei contadini, i borghi arrampicati sulle colline, i tetti ricoperti di neve e penetrati dai colori dell’autunno. Tutto questo c’è nel mondo di Donadel, tutto questo «è» il mondo il Donadel, dipinto mille e mille volte con eguale ispirazione e incredibile suggestione. Postuma gratitudine alle sue umilissime origini. Più che un pittore contadino, come molti lo hanno definito, il pittore dei contadini. Fosse nato a Roma, sarebbe stato definito il Bruegel delle colline venete. «Sono affranto, era un grande» commenta lo scrittore Mauro Corona, appreso della scomparsa del pittore da Marco Marinelli, uno degli amici più cari.
Non vi è casa, tra Valdobbiadene e Conegliano, che non abbia una sua tela; non vi è locale degno di questo nome che non abbia un suo lavoro; non vi è anziano che non l’abbia conosciuto per la sua autenticità, solo in apparenza burbera. Probabilmente anche per la sua sterminata produzione non ha mai scalato le quotazioni, dettaglio che del resto non è mai stato in cima ai suoi interessi. L’unico suo vezzo, fino a quando le forze lo hanno sorretto, sono state le giocate al Casinò, le carte con gli amici. E, se vogliamo proprio dirla tutta, i pantaloni a zampa d’elefante. Il suo lavoro è stato un grande ritratto antropologico, il vero patrimonio dell’umanità di questa terra.
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