«Fabbrica vintage e italiana: così ho rilanciato Diadora»

CAERANO. Le scarpe rosse di Ayrton Senna e la maglia azzurra di Roberto Baggio a Italia ’90 sono l’emozione del museo aziendale (qualcuno per le scarpe di Senna ha pure fatto un’offerta milionaria, rispedita al mittente). I vecchi macchinari degli anni Sessanta riportati in fabbrica hanno invece poco a che fare con la nostalgia, e molto con la scommessa industriale vinta dieci anni fa. 2009-2019: Diadora è passata dall’orlo del fallimento all’attuale momento d’oro (tutti gli indicatori positivi, l’azienda produce utili e assume, scarpe e prodotti piacciono al mercato) grazie a un business plan “vintage”. Regista dell’operazione è Enrico Moretti Polegato, 38 anni, che in tempi di crisi del tessile e fondi d’investimento dentro le aziende promette: «Diadora resterà un affare di famiglia. Né soci né fondi: resterò al timone a lungo».
Perché dieci anni fa decise di puntare su Diadora, smarcandosi da un posto in Geox, azienda del papà, Mario Moretti Polegato?
«Per tre ragioni: non avrei mai voluto vedere questo patrimonio disperdersi, il marchio era ancora pulito e riconosciuto, volevo un mio progetto con una mia squadra. Nessuno di questi tre motivi oggi è cambiato».
Cosa manca per completare il percorso di rilancio?
«Quando sono arrivato nel 2009 volevo far tornare il marchio un punto di riferimento in Italia e nel mondo. Per riuscirci abbiamo previsto una crescita graduale e sostenibile nel tempo. Senza cambiamenti nell’assetto societario».
Perché la scelta di riportare in fabbrica i vecchi macchinari?
«Garantiscono la produzione di un modello vintage molto apprezzato, curato in modo artigianale da pochi professionisti esperti che formano anche i neo assunti. È il top di gamma della nostra produzione, ne facciamo 160 pezzi al giorno, numeri da industria “1.0”. Il Made in Italy vale l’8-10% della nostra produzione».

È una percentuale destinata a salire? Questa operazione vi ha permesso di fare reshoring, riportare in Italia produzioni che erano all’estero. Il processo è completato?
«Nei prossimi dieci anni non credo che la percentuale cambierà, dipenderà anche dalle proporzioni che avranno le tre linee di prodotto sport, utility e life style. Piuttosto si rafforzerà il concetto di design italiano. Quello è tutto interno, nasce e si sviluppa nella sede storica di Caerano».
Diadora è in grado di crescere ancora camminando sulle proprie gambe? I fondi sono un’alternativa al credito bancario.
«Il mercato è molto mutevole, i nostri obiettivi sono a due-tre anni. Diadora si autofinanzia, è in grado di generare cassa. E tra altri dieci anni non sarà diverso. La crescita è legata al “brand value” più che al fatturato, il valore del marchio, la sua storia. E il nostro brand value sarà sempre più forte».
Le acquisizioni sono cruciali per crescere, vi state muovendo?
«No, le acquisizioni richiedono tempo e dedizione. Solo un progetto per volta. Puntiamo piuttosto sul lavoro di squadra dentro l’azienda e sulla sua inclusività».
Nel concreto?
«Abbiamo un team giovane, l’età media è 37 anni. Abbiamo continuamente posizioni aperte. La partita del welfare è fondamentale, vogliamo che tutti si sentano parte del progetto, in fondo siamo un’azienda che nasce nello sport e dello sport incarna i valori. Nel concreto: welfare aziendale, asilo nido interno, palestra e campo da beach volley per i dipendenti, nuovi progetti sempre allo studio».
Vendete per il 60% in Italia, la sfida dei prossimi dieci anni sarà conquistare più mercati?
«L’Italia ci ha trascinati nella fase del rilancio, l’internazionalizzazione è stata una scelta. Siamo in 60 Paesi, da un anno e mezzo stiamo penetrando negli Stati Uniti dove la linea per il running incontra i favori del pubblico. I dazi di Trump? Non ci preoccupano, per ora non riguardano le calzature».
Diadora resterà un’azienda di famiglia?
«Dal punto di vista societario sì, il mio impegno è confermato. Dal punto di vista gestionale, sarà sempre più manageriale. Eravamo in 60 quando sono arrivato, oggi siamo in duecento».
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