DIADORA, SCARPE ITALIANE DALLA VECCHIA MANOVIA

Un piano di rilocalizzazione per il marchio di Caerano, puntando a una produzione “artigianale” L’alto di gamma sarà interamente realizzato in casa. Fatturato in crescita del 15% nel 2015
Di Fabio Poloni

di FABIO POLONI

Diadora torna a casa. Cosa c’è di più . made in Italy di un prodotto realmente realizzato in Italia? Ecco allora che, per difendere l’aura di italianità, Diadora ha deciso di riportare davvero la produzione in casa, a Caerano di San Marco: l’obiettivo è di arrivare nel giro di tre anni a realizzare circa il dieci per cento delle calzature qui.

Enrico Moretti Polegato ha rimesso in moto la vecchia manovia anni Settanta nello stabilimento di Caerano. Già il nome, “manovia”, sa di cuoio e di grasso, di cuciture, di manualità artigianale. «Quello è il nostro dna: il valore del marchio è nella sua storia», dice il giovane presidente e amministratore delegato. La Lir, finanziaria della famiglia Polegato che controlla anche Geox, ha rilevato Diadora nel giugno del 2009. L’azienda era in ginocchio, piano piano si è rialzata: il fatturato 2014 ha superato i 240 milioni di euro, le previsioni per il 2015 stimano la crescita attorno al quindici per cento. Oltre alla manovia, insomma, Polegato jr ha rimesso in moto l’intera Diadora.

Italianità, dunque, al centro del progetto di rilancio. «Quest’anno abbiamo deciso di iniziare la nostra operazione reshoring», dice Polegato spiegando il suo piano di cosiddetta rilocalizzazione, «riportando in Italia parte della produzione, nello specifico il top di gamma delle nostre linee di calzature, per esempio quella heritage. Sarà interamente prodotto qui». Lasciate gli epitaffi a metà: il distretto dello sportsystem non è morto. «Non puntiamo a una produzione di tipo intensivo, qui, bensì artigianale: è una conferma del valore del know-how del distretto di cui Diadora è stata una dei primi esponenti», dice Polegato con vanto.

Tornerà qui, dunque, una fetta tra il sette e il dieci per cento della produzione (il resto rimane delocalizzato tra Cina, Thailandia e Vietnam). La linea produttiva, riaperta qualche mese fa - dopo quindici anni - con sei addetti, ora ne occupa una decina e realizza 120 paia al giorno. Ma l’obiettivo è crescere ancora realizzando «anche edizioni limitate in collaborazione con i principali negozi di sneakers al mondo», spiega Polegato, «che vengono qui, si disegnano e personalizzano il proprio modello e noi glielo realizziamo a mano. Per riuscire a comprarle abbiamo visto scene con code di notte per essere primi all’apertura dei negozi, incredibile. Quando questi pezzi si esauriscono nei punti vendita vengono successivamente venduti come pezzi da collezione. La prima “collabo” che abbiamo fatto è stata venduta per quattromila euro».

Un modo di smarcarsi verso l’alto, insomma, da un mercato altrimenti saturo. Alto inteso come qualità e come fascia di prezzo. I frutti si vedono: i numeri sul mercato italiano fotografano una crescita attorno al venti per cento, ma lo sviluppo va in doppia cifra anche in Francia, Stati Uniti d’America, Giappone e Corea. Sinergie con “mamma” Geox? «No, Diadora segue un percorso suo, i mercati sono diversi», spiega il presidente. La “scarpa che respira”, per esempio, sta focalizzando la distribuzione sui negozi di proprietà, più redditizi di franchising e multimarca. Diadora, invece, continua a puntare forte proprio sui multimarca, che in questo segmento funzionano.

Bjorn Borg, Roberto Baggio, Ayrton Senna. Pietro Mennea, Edwin Moses, Ben Johnson: la galleria di campioni negli album dei testimonial Diadora è un compendio di storia dello sport. Oggi si punta meno sull’uomo copertina - motivi di costi - ma gli assi in squadra ci sono ancora, eccome: «Il concetto di testimonial sportivo rimane», dice Polegato, «perché la nostra identità è quella è vogliamo che lo rimanga: anche il lifestyle deriva dalle nostre linee sportive. Cambia lo scopo: ora l’atleta che veste Diadora non fa solo conoscere i prodotti al pubblico ma diventa alleato, ambasciatore e collaudatore al tempo stesso: studia la performance del prodotto in condizioni estreme, ci aiuta a migliorarlo di continuo. Come per i prodotti da running: il nostro testimonial è Daniele Meucci, campione europeo di maratona».

Proprio una maratona era diventata la metafora della crisi di Diadora. «Il periodo più difficile era stato tra il 2008 e il 2009», aveva raccontato Gelindo Bordin, ex campione sui 42 chilometri, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Seul nel 1988 e poi responsabile marketing a Caerano, «Sembravano gli ultimi due chilometri di una maratona. Potevano essere gli ultimi due anni di una società fondata nel 1948. Non lo sono stati». Diadora ne è uscita aggrappandosi al suo passato, ma non con la disperazione della nostalgia: lì ha saputo cercare la combinazione del suo successo, e rimetterla in fila in chiave moderna. Oggi anche uno chef “vip” come Carlo Cracco può essere il testimonial giusto. E tra dieci anni, cosa sarà Diadora? «Io vorrei che tornasse a essere il sogno italiano nello sport», confida Polegato, «uno tra i primi marchi nazionali che vengono in mente quando si parla di sport, qualità, made in Italy. Tutto questo si fa rimanendo fedeli ai valori del nostro marchio: italianità, sportività, autenticità. In ogni attività di questa azienda».

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