Cicero: Treviso rovinata dagli “schei”

Giacca blu ben piegata, un quadro con nell’angolo il ritaglio di una foto di Falcone e Borsellino, un po’ di fascicoli. Poca roba, su un carrellino color grigio ospedale. Dopo quasi trent’anni, Francesco Giovanni Cicero lascia il tribunale di Treviso. Il procuratore capo pro-tempore sta finendo il trasloco. Lunedì sarà il suo ultimo giorno qui: dal 3 agosto prende servizio alla Procura generale di Venezia.
Poca roba nel carrello, ma i ricordi di trent’anni non stanno lì sopra: i primi processi, gli omicidi, il caso Succo, la corruzione. «Ho visto Treviso e la sua provincia cambiare, trasformarsi», dice Cicero al saluto, «e lasciarsi rovinare dai soldi, dai schei. Una volta era pregna di solidarietà, amicizia, di valori solidi, ereditati da una tradizione genuina e contadina. Poi l’arricchimento l’ha modificata, gli schei hanno soppiantato tanti valori». Cicero, comunque, resterà a vivere qui: «Sono stato bene e rimarrò», dice.
Procuratore, tema libero: che ricordi lascia?
«Era il dicembre del 1982 quando sono arrivato a Treviso. Ho preso possesso dell’incarico a marzo del 1983, dopo tre mesi da uditore. Il primo processo è stato subito impegnativo: un caso di concussione con tre alti ufficiali dell’esercito imputati. E condannati. Mi ricordo che volevo far sentire in aula le registrazioni che li inchiodavano, e il loro imbarazzo».
Primo processo e prima vittoria?
«Non ho mai considerato la condanna di qualcuno come una vittoria. Anche se a volte mi sono un po’ demoralizzato per alcune richieste non accolte dai giudici».
Oggi si può ancora fare il suo mestiere come si faceva trent’anni fa?
«Dico una cosa: la prescrizione non dovrebbe più esistere una volta iniziato il processo. Dà solo modo agli imputati e agli avvocati di cercare espedienti per rallentare il corso della giustizia. Ok ad altri sistemi di controllo su magistrati e giudici, ma non la prescrizione. Per il resto, credo che il nostro lavoro fosse più efficace con il vecchio codice, aveva un’impronta più immediata. Tutti abbiamo applaudito quando è stato introdotto il processo accusatorio, poi però ci siamo accorti che è più macchinoso, pieno di inghippi».
I casi che più si ricorda in questi trent’anni?
«Tanti. Penso a uno dei primi, credo fosse il 1985, di un patrigno che abusava sessualmente di una ragazzina, con la complicità di altri uomini del paese. Un caso inquietante. Poi a diversi omicidi, tra i quali lo strangolamento di una ragazza, Arianna, il cui corpo fu ritrovato sul Piave. Un’altra vicenda drammatica è stata la strage, seppur colposa, di Maserada, con otto ragazzi morti nell’incidente stradale che ha coinvolto la corriera sulla quale viaggiavano. Mi ricordo che stavo pranzando quando i carabinieri mi avvisarono e andai sul posto a vedere quel disastro».
E poi c’è anche la vicenda di Roberto Succo.
«Episodio tragico e inquietante per la personalità di quel ragazzo. Prima uccise i genitori, poi si rese latitante in Francia. Mi ricordo quando lo interrogai, parlava solo francese, faceva finta di non capire. Una personalità doppia: un giovane bello e pieno di vita, e poi un omicida implacabile. Ha ucciso otto persone, prima di farla finita in carcere. Uno di quegli episodi che non ti scordi mai».
E dei colleghi che ricordo si porta via?
«Faccio due nomi su tutti: Gioacchino Termini e Picchio Napolitano, due persone eccezionali sotto il profilo professionale e umano. Ma ho avuto un buon rapporto con tutti i colleghi».
Ma non saranno state solo rose e fiori.
«Macché, ci sono anche un’enormità di incazzature, ma abbiamo lavorato bene».
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