Arturo Filippini in terapia intensiva. La figlia: «Attesa angosciante»

TREVISO. Solo i parenti dei pazienti covid sanno cosa voglia dire vivere ogni secondo della giornata con l’incubo di non sapere, tremando ad ogni squillo del telefono temendo sia l’ospedale, e che le notizie siano brutte. A sollevare uno squarcio sulla realtà delle famiglie delle decine di persone oggi ricoverate negli ospedali della Marca è la figlia di uno dei più noti e storici ristoratori trevigiani: Arturo Filippini. Lui, l’ideatore del marchio Toulà, titolare per anni dello storico ristorante Alfredo (1961) di via Collalto, è ricoverato da giorni nel reparto di terapia intensiva del Ca’ Foncello di Treviso. Lotta contro il virus, una battaglia che vive solo con i medici, lontano dalla famiglia che come tutte quelle dei malati ha il divieto di visita.
Lo sfogo. «Scrivo questo agglomerato di parole ed emozioni nella speranza venga letto, compreso e condiviso». È iniziato così il post pubblicato ieri su facebook da Martina Filippini, figlia di Arturo e da sempre al suo fianco nel ristorante come i fratelli, Michela, Nicola, Massimo. Uno sfogo pubblico per raccontare dall’interno la vita dei familiari di un malato. Che in questo caso il malato sia anche un nome noto, e una personalità conosciuta, non cambia. L’esperienza che vive la sua famiglia è uguale a quella di altri, ed è una esperienza fatta soprattutto di una parola: angoscia.
«In bilico ora dopo ora». «Sono 15 giorni eterni con papà Arturo in ospedale», racconta, «difficile tradurre il tempo. Per noi. Chissà lui come lo percepisce. Non ci sono pregressi clinici che facciano fede e legge o cognizione di logica. Il covid nasce da troppo poco tempo. I dati sono i nostri cari. I parametri sono loro. Avete mai parlato con i medici di una Rianimazione??... Molti non l’hanno mai fatto. Sono straordinari. Ti mettono i piedi per terra e a giorni sotto terra perché devono trasmettere un quadro che può cambiare da un momento all’altro. Da un’ora all’altra. Le famiglie dei Covid-19 lo sanno».
L’angoscia del telefono. Impossibilitati ad assistere il loro caro, impossibilitati a comunicare con lui direttamente, le famiglie dei ricoverati hanno un unico canale di contatto con il proprio familiare, ed è indiretto: l’ospedale. È il reparto che chiama per gli aggiornamenti clinici, solitamente alle sette di sera come ci ha raccontato la direttrice della pneumologia di Treviso Micaela Romagnoli, ma può cambiare. Di certo, se la chiamata arriva fuori orario non sono buone notizie. «Quando vedi il cellulare squillare e che deve rimanere libero h 24 come l ossigeno, ti tremano le gambe... il cuore. Non sai mai cosa diranno» continua a raccontare «Il Covid non segue linearità. Impari ad ascoltare un gergo a cui non eri pronta. Impari che la parola "stazionario" ti entra nell’anima. La solca. Ti scende la paura. La paura di pensare che lo stazionario di oggi sembra meglio dello stazionario di ieri».
I medici e l’appello. «Non manco mai di chiedere ad ogni medico dottoressa infermiera come stiano. Come stanno i loro cari. Perché loro sono la nostra voce e un po’ la famiglia allargata con cui vivi. Grazie ogni giorno all’ospedale di Ca’ Foncello e a tutti i medici che sono addestrati e non si possono improvvisare quindi ammalare!!! Che si prendono cura di Arturo. Se papà vince vincono anche un po' loro». Parole a cui poi segue un appello a tutti i trevigiani in vista della Pasqua, e sentendo che molti iniziano a scalpitare, chiusi nella reclusione casalinga: «Oltre i decreti e le raccomandazioni. La voce di chi lo vive dovrebbe essere più alta a monito», scrive la figlia di Arturo. Monito a continuare a rispettare le regole e i divieti, evitare nuovi contagio, nuove diffusioni: «Pensateci bene a commettere leggerezze a Pasqua e Pasquetta. Se arriverà un’ondata di ritorno sarà una scelta consapevole (colpevole, ndr). E il nostro papà sarà ancora lì e chissà per quanto». Come i padri e i nonni, i mariti di tanti altri che lottano per la vita. —
F. d.W.. © RIPRODUZIONE RISERVATA.
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