Arricchiti con il tesoro dei nazisti

Trecento milioni sottratti ai tedeschi in fuga: chi ne ha beneficiato?
La copertina del libro di Brescacin
La copertina del libro di Brescacin
 
CONEGLIANO.
L'oro dei nazisti alla base della fortuna non solo degli abitanti del Menarè, ma anche di Conegliano. Si torna a parlare del mito della Colonna d'oro del Menarè bombardata dagli Alleati nell'aprile 1945. Nuove ricerche condotte dallo storico Pier Paolo Brescacin hanno svelato che circa 300 milioni di lire di allora (pari ad attuali 10 milioni di euro) sono state sottratte anche Conegliano dalla popolazione e dai partigiani. Nuove rivelazioni su uno degli episodi più appassionanti dell'ultima guerra, cioè quello della colonna nazista in fuga nell'aprile 1945 che attraversò Conegliano e il Menarè diretta verso la Germania. Se ne parlerà venerdì alle 20.30, presso la sede della Dama Castellana di Viale Spellanzon 15. Le rivelazioni del libro: una colonna tedesca in ritirata sostò a Conegliano la notte del 28 aprile 1945 e le prime ore del giorno successivo. E proprio qui, prima di partire diretta sul Menarè ove venne fermata dai caccia alleati, la Colonna tedesca si lasciò dietro di sé un prezioso carico di denaro che fece la fortuna di molti. Le cronache parlano di tre cassoni grigi delle misure di 90x80x70 muniti di coperchio e serratura presenti su alcuni automezzi tedeschi abbandonati sulla sede stradale di viale Spellanzon e contenenti rotoli di valuta italiana da 5000 e 1000 lire nuovi di zecca, sacchetti di monete d'argento e di marchi tedeschi, per un valore complessivo di 300 milioni di lire, pari a 10 milioni di euro attuali. Ma si parla anche di altri tre identici cassoni rinvenuti vuoti nel giardino di un'abitazione attigua al viale. Il bottino venne trafugato in parte dalla popolazione civile e in parte da elementi della polizia partigiana. Quest'ultimi, in particolare, provvidero con mezzi di fortuna a trasportare il malloppo in una casa vicina e se lo spartirono tra di loro, consegnandone solo una piccola parte. E tutto questo all'insaputa dei Comandi partigiani della «Piave». Tuttavia il loro comportamento non passò inosservato, e non mancò di suscitare sospetti all'interno dello stesso Comando partigiano, che nell'immediato dopoguerra avviò un'indagine interna per appurare l'accaduto, senza però approdare a nulla di fatto. Ma le voci e le illazioni continuavano, e così anche per tutelare il buon nome dei partigiani, il vicecomandante della «Piave» Oddone Saccon «Astorre» si decise di interessare la Procura della Repubblica. Le indagine delle autorità inquirenti durarono ben tre anni, e si conclusero il 20 dicembre 1950 con l'individuazione dei due responsabili della sottrazione, entrambi coneglianesi: Umberto D'Inca, classe 1921, capo della polizia partigiana e uno dei primi ad entrare in città il 28 aprile 1945 ed Emilio Tomè, classe 1915. Entrambi vennero condannati rispettivamente a due anni e sei mesi e a due anni di carcere, unitamente all'interdizione dai pubblici uffici. Pena, questa, interamente condonata per effetto dell'indulto del 23 dicembre 1949. Furono invece assolti altri tre coneglianesi: Vittorio Pagot per insufficienza di prove; Sante Bottecchia e Giuseppe Zoppè per non aver commesso il fatto. Tale sentenza venne confermata in secondo grado nel 1952 per il D'Incà, mentre il Tomè venne assolto per insufficienza di prove. (sa.b.)

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