Volley, un anno senza Sara Anzanello: il ricordo nel suo libro

L’eredità della pallavolista di Ponte di Piave: i puzzle della sua vita raccolti nel libro che voleva scrivere a tutti i costi

PONTE DI PIAVE. Voleva fare la giocatrice (e ci è riuscita piuttosto bene...) ma anche l’allenatrice e poi la scrittrice, o la paracadutista, la pittrice e la veterinaria, oltre a diventare mamma di una bimba. Ha messo per iscritto i suoi desideri. Non li ha realizzati tutti, ma ha lasciato un segno. Sara Anzanello è saltata a murare in un’altra dimensione il 25 ottobre del 2018. Un anno fa, ad appena 38 anni. Un talento straordinario della nostra pallavolo, un dono per chi l’ha conosciuta.

L’eredità di Sara - il suo nome è in premi, riconoscimenti, Walk of Fame - è anche nel suo libro, che ha iniziato a scrivere, basandosi sulla sua esperienza di vita, successivamente al trapianto del marzo 2013. Oltre che al pc l’ha scritto e disegnato anche in diari e fogli di carta, poi è stato messo insieme come un puzzle.

Il testo annoda la narrazione ai flashback, partendo dal 26 febbraio 2013, quando Sara giocava a Baku con l’Azerreyl. Da quella mensa, con quel piatto reinventato da una dottoressa azera: «Una polpetta fritta ripiena di burro fuso non può essere servita agli degli atleti prima di un allenamento». Con lei c’era anche Indre Sorokaite, che oggi gioca con l’Imoco. Dopo quel pasto qualcosa non va: resterà senza forze, ma voleva giocare. Ricostruisce la tenera telefonata con la mamma, che le chiede di non prendere freddo. I giorni in cui contrae l’epatite fulminante fanno da contraltare ai ricordi d’infanzia: «Prima di entrare nella palestra di Salgareda sapevo a malapena le regole di questo sport. E vedere i cartoni di Mimì Ayuhara era più un trauma che uno stimolo, si allenava con le catene ai polsi e l’allenatore le urlava sempre contro». Prima, aveva provato il nuoto e poi il pianoforte, scrive delle estati in campeggio a Jesolo, i campi di pannocchie, i giochi in un cascinale abbandonato, l’opportunità del Latisana quando non aveva nemmeno 15 anni, e la bocciatura a scuola: «che un 6- diventasse un 5 non me lo sarei mai aspettata». E ricorda il nonno Rino «deportato ad Auschwitz. Faceva il servizio militare a Fiume, quando Hitler ha invaso l’Italia. Catturato, si è inventato ferrotranviere. Guidava i treni della morte. Da lì è scappato e in tre mesi, camminando solo di notte, è tornato a Navolè».

Sara racconta la sua carriera, catapultata poi in Serie A, sul tetto del mondo con l’Italia, e poi sul suo arrivo a Baku. E, in quel fine inverno, quando tutto cambia. Gli esami, l’emoglobina bassa, l’epatite (mentre i medici la consideravano una mononucleosi) con il suo ragazzo che capisce la gravità e la fa portare a Istanbul e poi al Niguarda di Milano. «La situazione è veramente grave», gli viene ripetuto, «Rimangono 4 o 5 giorni per fare un trapianto. Altrimenti morirà». La sua impresa eccezionale è stata quella di farcela, sognando di tornare sul taraflex: «Ogni volta che indosso la maglia con il numero 1 e il mio cognome stampato sulle spalle, assumo dei superpoteri che prima non avevo. Come quando Supeman mette il suo mantello o Tor impugna il suo martello».

Ma poi ha avuto la forza per andare a Jesolo, il 20 giugno 2013 «C’è Raffa (Calloni, ndr) mi ha sempre trattata, accudita e protetta come una sorella». L’anno dopo ci arriverà in forma: «Stamattina (19 marzo 2014) ho corso, come una persona normale, non Robocop». Perchè Sara rideva. Molto. Anche dopo tutto, ricorda quando in macelleria le dissero «ti ricordavo più in carne».

Il linfoma che l’ha uccisa le è stato diagnosticato il 21 agosto 2018. Lo disegnerà come una farfalla con sguardo truce, un essere da scacciare. Due mesi dopo è saltata via.

Il mondo del volley non la potrà mai dimenticare. La Lega Volley femminile da quest’anno premierà il miglior muro per ricordarla, con ogni probabilità le verrà intitolato il palasport di Ponte di Piave, e il suo nome è inserito nella Walk of Fame di Roma. Come le leggende.
 

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