La versione di Aldo: "Non volevo tirare quel rigore maledetto"

Dal Mundial perso con l'Argentina ("colpa anche dei tifosi napoletani") a Bonucci, da Platini all'Inter, il bomber montebellunese diventa ambasciatore dello Sportsystem e si racconta

MONTEBELLUNA. Tonino non aver paura di tirare un calcio di rigore... E invece sì, eccome. «Non me la sentivo, mi tremavano le gambe. E ho sbagliato. Da lì il buio, sono entrato in uno stato di trance, non mi ricordo niente di quella sera».

Quella sera, nel racconto a cuore aperto di Aldo Serena, è il maledetto 3 luglio del 1990. Il campione di Mercato Vecchio si è raccontato giovedì sera a villa Zuccareda, sede del museo dello scarpone, ospite di Patrizio Bof - neo-presidente dell’Associazione dello Sportsystem e imprenditoria del Montebellunese e Asolano - che lo ha nominato “ambasciatore” del distretto. Dagli esordi con le scarpe fatte a mano dal papà al titolo di capocannoniere, dalle battute di Platini a quel regalo ad Ancelotti, da Bonucci a Donnarumma, ecco il meglio della “versione di Aldo”.

Quel rigore. Ripartiamo da lì, Italia-Argentina 1-1 dopo i supplementari: per decidere se in finale ci andiamo noi o Maradona servono i rigori. «Non dovevo battere, mi ero già seduto - racconta Serena - mi si avvicina mister Vicini e mi dice: Aldo, ne ho tre che tirano, te la senti? No, non me la sentivo affatto, ma ho dovuto. Le gambe mi tremavano. E infatti ho sbagliato». Sull’errore dal dischetto di Aldo - dopo quello precedente di Donadoni - crollano i sogni di gloria azzurri. «Da lì non mi ricordo niente, trance assoluta. Solo il giorno dopo ho rivisto le scene in tivù e mi sono accorto che era venuto a consolarmi Roberto Baggio, lui giovane di 23 anni, io ne avevo già 30. L’ho ringraziato».



Baggio e Del Piero.
Già, Baggio. Il più grande, per Serena. «Del Piero è un logico, un matematico, Baggio un naïf. Del Piero non ha mai sbagliato un colpo in carriera, strepitoso fino a quarant’anni. C’è chi ama quelli così, chi quelli più estrosi. Li metto sullo stesso piano, ma forse Baggio è stato qualcosa di più».


Il regalo a Carletto.
Tanti aneddoti, nel racconto di Aldo. Uno particolarmente bello. «Stagione 1991/92, ultima a San Siro, Carlo Ancelotti sta per ritirarsi. Giochiamo col Verona e festeggiamo lo scudetto, io e Carlo siamo in panchina. A un quarto d’ora dalla fine mister Capello si gioca l’ultimo cambio e mi chiede di entrare. Ho visto che Ancelotti ci è rimasto malissimo, voleva salutare il suo pubblico. Ho chiesto a Capello di far giocare lui. Carlo è entrato e ha segnato due gol in un quarto d’ora».



Il richiamo di Michel.
«Fantastico, ha fatto impazzire l’Avvocato - racconta Aldo su Platini, suo compagno alla Juve - ricordo che io lì ero partito alla grande, con sette gol in nove partite. Michel mi ha preso da parte e mi ha detto: ehi, guarda che ti ho fatto portare qua io, non devi mettere tutti i palloni davanti, in porta, fanne arrivare anche qualcuno dietro. Voleva gli assist, essere protagonista».


Milan e Bonucci.
«Il passaggio di Bonucci è stata una sorpresa per tutti, anche per i tifosi della Juve: in sette anni era diventato un leader in campo e fuori, ma qualcosa si è rotto con Allegri. In questo caso allora meglio così, tagliare: la Juve ha scelto l’allenatore, come spesso accade. Il Milan ha fatto una campagna acquisti sontuosa, ora arriva il difficile per Montella: creare sintonia con tanti nuovi non è facile. Sarà sicuramente una delle prime quattro, scudetto forse no». Ora Belotti? «Sembrava non avessero soldi, all’inizio, ora sì. Avendoli andrei su Belotti, non su Kalinic. La Juve però non si è rafforzata, mi aspetto qualche colpo importante». Napoli favorito? «Squadra collaudata, ma manca forse un centrocampista top. Un Verratti, per esempio».



Raiola? Io no, grazie. Marco Verratti che, tra l’altro, è appena passato nella scuderia di Mino Raiola. «Io non ho mai avuto un procuratore. Avrei guadagnato qualche soldo in più ma non mi sarei fatto conoscere direttamente, in prima persona, dai dirigenti delle squadre. Adesso contano tanto, i procuratori, fanno delle reti di acquisto, come con il fratello di Donnarumma».

Gigio, che rischio. Situazione ricucita col Milan? «Quando si fa lo strappo, di solito, si fa: se il Real, squadra top, ti chiama e ti offre il triplo dei soldi, si va. Ora gli auguro di partire bene e non avere tentennamenti, come li ha avuti in nazionale: i tifosi del Milan sono contenti che sia rimasto, ma credo che lo aspettino al varco».

Sposi a Milanello. Quanto sono lontani i tempi del primo Milan di Serena, quello del presidente Farina (82/83, campionato di B, Milan promosso con otto gol di Aldo). «Un giorno a inizio ritiro siamo arrivati a Milanello e abbiamo scoperto che c’erano due matrimoni, Farina aveva affittato gli spazi. Mister Castagner andò su tutte le furie e ci portò via, in albergo. La super-organizzazione di Berlusconi poi ha segnato una differenza abissale».

Purgatorio tra le stelle. Nel suo peregrinare tra Juve, Inter, Torino e prestiti vari, la seconda esperienza in rossonero (dal ’91 al ’93) ha chiuso la carriera di Aldo. «È stato uno stacco soft, mi sono preparato al ritiro gradualmente. Avevo problemi fisici e una concorrenza spaventosa: davanti c’erano Van Basten, Gullit, Papin, Savicevic, Massaro e Simone».

Amala. «Io ho sempre tifato Inter - confessa Aldo - anche se la Juve mi è rimasta nel cuore». È proprio in nerazzurro che la sua carriera ha toccato l’apice. «Nell’estate del 1988, all’inizio del mio secondo anno all’Inter, sono arrivati Matthäus, Brehme, Diaz, quel cavallo pazzo di Berti e Bianchi. Una squadra pazzesca, un mix di forza e fantasia. Io non sono mai stato un eclettico, so fare la prima punta: quella squadra mi ha esaltato, abbiamo vinto lo scudetto e sono stato capocannoniere. Ho tenuto una maglia gettata da Lothar: faceva molto caldo e si tagliò le maniche con una forbice». L’allenatore era Trapattoni.

La prima che non si scorda. Altro ricordo dolcissimo a tinte nerazzurre. «È stata l’emozione più grande della mia carriera. E successe tutto per caso. Ero a Montebelluna quando mi chiamarono per andare a Milano, c’erano Altobelli e Muraro indisponibili: ho esordito e ho pure segnato». Era il 19 novembre del 1978, match contro la Lazio. «Uscendo da San Siro ho sentito: “Tonin, Tonin!”, erano i miei amici di Montebelluna venuti a vedermi. Che gioia».

Gol mundial. Il gol più bello? «Quello con l’Uruguay a Italia 90. A Roma arrivavamo allo stadio in pullman, cinquanta chilometri tra due ali di folla. Avevamo già vinto».



Vedi Napoli...
Mondiale poi finito malissimo, e Aldo se la prende anche con i tifosi napoletani. «Avessimo giocato sempre a Roma, con quel clima, avremmo vinto il mondiale. A Napoli contro l’Argentina lo stadio era diviso in due, metà tifava per Maradona, non c’è mai stato feeling con il pubblico. È stata anche colpa nostra non saperci adeguare a questo cambiamento».


La tivù.
Ora Aldo fa il telecronista per Mediaset. «Esordio: agosto ’94, Lazio-Ajax, al posto di Bettega appena passato a fare il dirigente della Juve. Mi ricordo una partita sottotono e noiosa, io l’ho detto e in cuffia il regista Popi Bonnici mi ha bastonato: non dire queste cose, siamo una tivù commerciale, non dobbiamo far scappare il pubblico. Dovevo imparare i meccanismi».


Le radici.
Ora Aldo è tornato a casa: vive a Mercato Vecchio con la moglie e i due figli Giulio e Giorgio. Da lì tutto era partito. «A undici anni ho visto il cartellone del torneo biancoceleste e ho chiesto a mio papà se potevo andare. Mi ha detto: se ti arrangi in bici, vai pure. Il Monte ha scelto me e Toni Brunetta. Le prime scarpe per giocare al “X Martiri” me le ha fatte mio papà, vengo da una famiglia del mestiere, già mio bisnonno Marco e mio nonno Aldo erano artigiani delle scarpe. Da professionista con Mario Bonato, designer della Lotto, “sezionavamo” le scarpe dei big del settore per rubarne i segreti e migliorare le mie».


La frase.
Ad Aldo viene chiesto di scegliere una frase, una sola: «Le cose vanno fatte bene, con impegno e al meglio, sempre, perché il tempo per farle bene o male è lo stesso». Chi l’ha detta? «Mio papà».



 

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso