«Un miliardo per rifare i boschi a Nordest Zaia ha ragione, serve un piano Marshall»

Il professor Cavalli: le Alpi riparano dalle trombe d’aria ma nel 2017 l’Irlanda fu devastata come Veneto e Trentino»



L’Apocalisse di vento e fango che ha sconvolto il Veneto e messo in ginocchio la montagna bellunese presenta il conto: ci vorranno 4-5 anni per rimuovere gli abeti sradicati come stuzzicadenti nelle valli.

E non basteranno certamente i 250 milioni che il ministro Salvini ha “trovato nei cassetti di Palazzo Chigi”: serve un miliardo di euro per far rinascere le foreste del Nordest, dalla Carnia all’Agordino, da Asiago fino alla Val di Sole in Trentino. Il crinale delle Dolomiti devastate dalla tromba d’aria è lungo 400 chilometri e il calcolo dei danni è appena iniziato.

Il professor Raffaele Cavalli, 65 anni, direttore del Dipartimento Territorio e Sistemi agro-forestali di Agripolis dell’università di Padova è l’esperto cui Luca Zaia intende affidarsi per uscire dall’emergenza. Ecco la sua analisi.

Professor Cavalli, come si spiega la strage dei boschi? È un evento rarissimo in Italia e in Europa?

«E’ un autentico disastro ambientale come mai s’era verificato prima in Italia, causato da una bufera di vento molto forte, dai 150 ai 200 chilometri l’ora. In Europa centrale fenomeni simili sono abbastanza frequenti, con le tempeste di vento e pioggia dalla costa atlantica. L’ultima del 2017 si è abbattuta sull’Irlanda e ha distrutto il 2 per cento della superficie boschiva del Paese. L’hanno chiamata Ofelia e ha contagiato anche la Scandinavia. In Italia abbiamo le Alpi che ci riparano, ma questa volta il vento di scirocco salito dall’Adriatico ha colpito le valli esposte verso il mare».

E’ giusto mettere sotto accusa il clima per il riscaldamento globale del pianeta?

«Non è il mio campo e non voglio parlare del clima ma dei boschi. Certo, queste trombe d’aria sono dei segnali, dei campanelli d’allarme che ci invitano a riflettere, a cambiare stile di vita ma non ha senso prendersela con la pioggia perché il disastro è stato causato dalla forza del vento che ha divelto gli abeti rossi, con un apparato radicale superficiale: la pioggia ha solo aggravato la massa. Se la tromba d’aria del 29 ottobre si fosse verificata in estate con il bosco secco, le piante si sarebbero spezzate e frantumate ancora di più».

Lei ha messo a disposizione della Regione il suo team universitario: a che punto siete con la stima dei danni? I 3-4 milioni di alberi sono diventati 15 per la Coldiretti. Possibile?

«Inutile dare dei numeri, in questi giorni è stato avviato il primo censimento delle quantità a terra. Lo facciamo con le foto satellitari del sistema Copernicus e tra un paio di settimane avremo le cifre esatte del disastro. Poi si dovrà entrare nei boschi, tagliare gli alberi, togliere la corteccia per liberarli dagli insetti e dai funghi. Sarà un lavoro molto impegnativo che durerà almeno 4-5 anni. Serve una logistica, con degli immensi piazzali di deposito. I tronchi che stanno scendendo a valle lungo i fiumi si possono salvare, ma bisogna fare in fretta perché l’effetto barriera può essere devastante».

Un disastro che obbliga a ripensare la gestione del territorio: lei cosa propone? Non c’è solo il Veneto.

«Purtroppo è così, tutto il Nordest è stato martoriato e quindi va creata una cabina di regia per coordinare gli interventi in Veneto, Trentino e Friuli: le tre regioni e sindaci. La Carnia, le valli di Fiemme, Fassa e Sole e poi Asiago e il Veronese sono state devastate: accanto ai boschi c’è tutto il tessuto sociale ed economico da ricostruire con le strade e le aziende. Ma i boschi sono la vera emergenza da affrontare e non solo per una questione ecologica. Qui c’è un intero comparto economico in ginocchio, la filiera del legno rischia di andare in crisi, il prezzo crollerà per l’eccezionale offerta di materia prima e c’è il rischio che le aziende austriache e tedesche facciano man bassa di abeti. Il 60% dei boschi distrutti appartiene ai Comuni, è demanio pubblico e i sindaci hanno perso gran parte del loro patrimonio: saranno costretti a svendere la legna e per un secolo non potranno più contare sul reddito dei boschi. Per la montagna si affaccia una stagione drammatica: ci vogliono almeno 100 anni per portare un abete rosso a 30 metri d’altezza e a 50 centimetri di diametro».

Il governatore Luca Zaia parla di un piano Marshall per salvare il territorio, lei che ne pensa: non sta esagerando?

«No, il presidente Zaia ha perfettamente ragione e conosce a fondo la materia. Serve davvero un piano Marshall con una cabina di regia su scala triveneta, la natura con le trombe d’aria si rinnova e così è sempre avvenuto nel corso dei secoli ma il conto dell’ottobre 2018 è pesantissimo. Bisogna pulire i boschi con delle macchine speciale, in Veneto ci sono 200 aziende del settore legno da coinvolgere ma se venisse attivata la protezione civile forestale si potrebbero accorciare i tempi. E poi vanno reimpiantati gli alberi. Possiamo attendere i tempi della natura con le pigne che si schiudono e fanno nascere gli abeti rossi, ma penso che si voglia salvare le Dolomiti con nuove foreste in tempi più veloci. Serve un miliardo di euro nell’arco di 5 anni, Zaia ha già fatto i primi calcoli e non si sbaglia».

Cosa piantare per superare la monocultura degli abeti rossi?

«Il bosco si rigenera con i semi ma lo possiamo rinvigorire con delle specie diverse: larici, faggi, abete bianco. Tutto si può fare. Forse anche il ciliegio selvatico a una certa quota. Dipende delle condizioni climatiche. L’abete rosso cresce rapidamente, ha una buona resistenza se paragonato alla massa con caratteristiche tecnologiche interessanti. Il larice cresce più lentamente, molto resistente all’esterno, ottimo per i pavimenti, non si degrada e si può utilizzare per applicazioni esterne. Ci sono poi dei boschi particolari, come a Panneveggio in Trentino e Pramosio in Carnia in cui crescono degli abeti rossi che per loro caratteristiche specifiche hanno gli anelli di accrescimento deformati, a ondine invece che circolari e quindi sono ideali per li strumenti a corda come i violini. Non esiste la specie “abete di risonanza”, ma ci sono dei boschi e l’abilità sta nel saperli individuare. Bisogna osservare la chioma, se è più ristretta può essere quello ideale: tagliato l’albero va trovato il legno di risonanza che è davvero poca cosa e i costi salgono alle stelle.

L’albero è come la vela di una piccola nave e quando il vento soffia a 150 chilometri la pianta o cede nell’apparato radicale o si spezza. La tromba d’aria entrata nelle valli ha creato vortici con situazioni diversificate e ci sono alberi abbattuti a fianco di case con tetti per fortuna intatti. Sono stato sull’altopiano di Asiago e la Val D’Assa con i 7 chilometri, Marcesina edEnego sono le zone più devastate ma il disastro è ovunque, basta passeggiare».

Si avvicina la stagione dello sci, che previsioni si sente di fare?

«Sarebbe drammatico se la montagna messa in ginocchio dal maltempo dovesse subire ulteriori danni economici con lo stop alla stagione della neve. Le strade forestali vanno liberate in fretta per creare le piste per lo sci di fondo da Asiago a Lavarone. E anche gli impianti di risalita vanno liberati dai tronchi d’albero: bisogna fare in fretta. Il nostro dipartimento universitario è pronto a collaborare, noi ci siamo». —





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