Scomparsi, la tela di Penelope: «Non dimentichiamoli, siamo voce nel limbo»

Dal 2005 i volontari veneti hanno affiancato duecento famiglie nella ricerca di persone care. La presidente Ferrari: «Proviamo ad essere salvagente in un momento di grande solitudine»

Costanza Valdina
Un gruppodi volontari dell’associazione Penelope Veneto, dal 2005 hanno aiutato duecento famiglie
Un gruppodi volontari dell’associazione Penelope Veneto, dal 2005 hanno aiutato duecento famiglie

«Chi dimentica cancella, noi non dimentichiamo». Più che un motto, è una missione che Penelope insegue dal 2002, da quando Gildo Claps, fratello di Elisa, scomparsa a Potenza nel 1993 e ritrovata dopo 17 anni, ha deciso di dare vita ad un’associazione nazionale per stare al fianco di chi si trova improvvisamente a vivere l’assenza inspiegabile di una persona cara.

Centinaia i volontari in tutta Italia che ogni giorno tessono una tela d’informazioni per accendere una scintilla nel buio dell’incertezza. «Proviamo ad essere una voce amica nel limbo dell’attesa», racconta la presidente di Penelope Veneto Daniela Ferrari.

Quando nasce l’associazione veneta?

«È stata fondata nel 2005 da Gilda Milani, la mamma di Milena, scomparsa in Tunisia trent’anni fa. Da allora abbiamo affiancato più di duecento famiglie».

Chi sono i volontari e che età hanno?

«Il più giovane ha 19 anni, il più anziano più di 80. Ci sono operai, insegnanti, psicologi, ex forze dell’ordine, informatici, avvocati. La diversità di esperienze è una ricchezza: ognuno porta una competenza e un punto di vista umano differente».

Cosa succede quando arriva una segnalazione?

«Chiediamo subito copia della denuncia, del documento d’identità e una liberatoria che ci permetta di interagire con le prefetture e le forze dell’ordine. Poi verifichiamo se è stato attivato il piano provinciale delle ricerche, se c’è un fascicolo aperto in procura, e ci mettiamo in contatto con chi sta seguendo il caso. Allo stesso tempo parliamo con i familiari per far emergere ogni dettaglio utile e fornire un supporto».

Dopo quanto vi contattano?

«Dipende dal caso. Per Giulia Cecchettin, ad esempio, ci hanno contattati poche ore dopo. Per Matteo Vendramin dopo due giorni. Prima arrivano le segnalazioni, più possibilità abbiamo di attivare la rete».

E quando passano mesi senza risposte?

«Riproponiamo gli appelli periodicamente. Le nostre città sono piene di persone che vivono ai margini: tra loro ci sono anche scomparsi di cui le famiglie non hanno più traccia. In Veneto, per esempio, abbiamo ritrovato un uomo sparito dall’Emilia Romagna quasi vent’anni prima».

Quali canali utilizzate?

«I social, ma anche il nostro sito web. E poi la stampa: i giornali locali e i tg regionali sono fondamentali, perché non tutti hanno dimestichezza con Internet. Quando serve, aiutiamo anche le famiglie con il volantinaggio: un semplice foglio appeso può ancora fare la differenza».

Alcune scomparse si trasformano in grandi casi mediatici, altre invece passano quasi inosservate. Come se lo spiega?

«Se c’è il sospetto di un atto criminale, i media si interessano di più. Altre volte, invece, sono le famiglie stesse a scegliere di mantenere un profilo basso, per proteggere minori o persone fragili».

In Italia se ne parla abbastanza?

«Potremmo fare di più, sopratutto nelle fasi iniziali di ricerca. Servirebbero unità specializzate, con operatori formati ad affrontare ogni tipo di emergenza».

Quanto è diffuso il fenomeno dei defunti non identificati?

«Più di quanto si pensi. Negli obitori delle medicine legali italiane ci sono circa un centinaio di corpi non identificati. Esiste una banca dati del Dna, ma sono ancora poche le famiglie alle quali viene prelevato il campione genetico. Stiamo spingendo perché si applichi il protocollo firmato lo scorso anno tra la Procura generale di Venezia e l’Ufficio del Commissario straordinario: prelievo del campione genetico, confronto dei dati e sepoltura dignitosa. È un atto di giustizia necessario».

Quali sono le cause più frequenti di scomparsa?

«Ci sono gli allontanamenti volontari, spesso dovuti a crisi personali, situazioni familiari difficili o problemi economici. Poi ci sono le scomparse legate a disturbi cognitivi: basta un momento di disorientamento per non riuscire più a tornare a casa. E ci sono le fughe adolescenziali legate a liti e delusioni».

Continuate ad affiancare le famiglie anche dopo il ritrovamento?

«Alcune si sganciano dalla zattera di Penelope e altre, invece, instaurano con noi un rapporto più profondo. Per molti siamo riusciti ad essere salvagente in un momento di grande solitudine». 

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