Giuseppe, la guerra vista con occhi di bambino

«Mia zia diceva che quella polenta aveva dentro le tarme e anche i vermi, perché era una polenta fatta con le semole e con le scorze. Ma io non ho visto niente e mi ricorderò fin che vivo di quella polenta che dalla fame che avevo mi sembrava buona, ma buona come i biscotti di adesso».
Finita la Prima Guerra Mondiale, le scuole riaprono e Giuseppe Boschet è un bambino iscritto alla quarta elementare di Seren del Grappa quando scrive un tema ispirato al ricordo dell’ultimo anno di guerra, il 1917-18. La maestra, deve essere stata una meravigliosa maestra, coglie la forza delle parole di quel bambino e lo invita a continuare a scrivere, a inanellare altri ricordi, altre impressioni, prima che si stingano nella sua memoria. E Giuseppe racconta senza chiedersi da che parte – se mai ce n’è una – stia la ragione, dove il torto, chi e perché abbia cominciato quel massacro. Racconta la fame che ha patito, le granate che ha sentito cadere, la desolazione dei campi non più seminati, le famiglie smembrate, la paura, il dolore, il padre al fronte che una notte appare furtivo per baciarlo e accarezzarlo, la madre che non riesce ad attraversare le linee nemiche e a tornare a casa, il gesto di un soldato austriaco che divide con lui il suo rancio, la gioia immensa quando, siamo ormai nell’autunno del 1918, in paese arriva la banda dell’Esercito Italiano e ascoltando quella musica felice, guardando la gente che corre in piazza e si mette a gridare, a ballare, Giuseppe capisce che la guerra è finita.
Le sue parole, che alternano con inventiva naturalezza e sconfinata fantasia lingua italiana e dialetto, hanno la potenza di un reportage dal fronte, l’incanto di uno sguardo acutissimo, lo stupore che commuove di cui sono capaci i bambini, quando possono esprimersi. Lui stesso, quando arriva all’ultima pagina, sembra esserne sorpreso: “Ho scritto un tema che è venuto molto lungo che non mi sono neanche accorto. Poi, quando la signorina Maestra ha corretto tutti i compiti, mi ha scritto bravo sul quaderno. Anche mio nonno e mia nonna mi hanno detto che è stato proprio così, e che sono stato bravo. Invece non mi ricordo che dopo, finita la guerra, per tanti anni mi svegliavo di soprassalto, pieno di incubi e di paure. Io non mi ricordo, ma mia nonna sì”.
Il quaderno di scuola del piccolo Boschet, che crescendo diventerà parroco in diversi comuni del Veneto e monsignore, molti anni dopo conoscerà una pubblicazione a stampa. Sarà la pianista feltrina Sonia Garna a farlo conoscere al compositore veneziano Claudio Ambrosini. Quando il Teatro La Fenice ci ha proposto un’opera nuova in occasione del primo centenario della guerra, con Claudio non abbiamo avuto dubbi: la Grande Guerra doveva essere vista dagli occhi di un bambino, di quel bambino, di Giuseppe Boschet. Le sue parole, che il pubblico di Vittorio Veneto – ne sono certo – non riuscirà più a dimenticare, sono “circondate” da un coro maschile, espressione degli uomini che la guerra combattono, e da una voce di donna, una per tutte, a rappresentare – come dice Ambrosini – “quella controparte femminile che di tutte le guerre altrettanto porta il peso: come madre, sposa, vedova, sorella, fidanzata, figlia”.
I confini della guerra e dei suoi lutti sono, purtroppo, estesi quanto il mondo, ieri come oggi: sembra, atrocemente, che noi uomini della guerra non possiamo fare a meno. Nel nostro racconto alle parole di Giuseppe si uniscono delle frasi e dei versi di Nelson Mandela e di Anna Achmatova: il grande leader politico sudafricano e la poetessa russa hanno conosciuto la violenza delle dittature, la guerra, la prigionia, la più spietata oppressione. Eppure, non hanno mai disperato; non hanno mai risposto all’odio con l’odio, con un’ostinazione visionaria e necessaria hanno continuato a credere che, prima o poi, gli esseri umani cesseranno di combattersi, di odiarsi.
“Noi smentiamo la nostra comune umanità permettendo che una parte così grande del nostro pianeta sia ancora sconvolta da guerre distruttive, da feroci conflitti”, ha scritto Mandela. Mentre la Achmatova, con i suoi versi, dà voce ai caduti, al loro desiderio di non essere dimenticati: “Se avrete memoria di noi, / a lungo voi vivrete e degnamente. / Guardate, siamo sereni, / se avrete memoria di noi”. Noi siamo la nostra memoria. Perché scoppi la pace.
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