Violenza di genere, la presidente del telefono rosa: «Nasce in famiglia, le panchine rosse non bastano»
Maria Stella Di Bartolo, avvocata e presidente del Telefono Rosa: «La missione dev’essere aiutare le donne ma anche educare i loro figli. La violenza di genere nasce in famiglia»

«Le panchine rosse servono a ben poco se non cominciamo ad insegnare ai bambini fin da piccolissimi che la violenza di genere comincia tra le quattro mura domestiche». Maria Stella Di Bartolo oltre ad essere la presidente del centro antiviolenza del Telefono Rosa di Treviso è un’avvocata, si occupa dei casi di donne vittime di violenza e di casi, nonostante tutto, ne vede sempre di più. L’abbiamo contattata in occasione del 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, e prima di cominciare l’intervista chiede di sottolineare un aspetto: «La nostra missione è tutelare le donne. Però come associazione non sopportiamo più che ci venga richiesto di raccontare, di incedere sui particolari delle violenze».
Sta cambiando il modo di parlare di violenza?
«Sì, sarebbe interessante ascoltare le voci della rete antiviolenza. Sono persone preparate a parlare di questo tema. Ogni giorno ascoltiamo storie terribili, ma non serve toccare i sentimenti delle persone se prima non si parla di violenza di genere».
Se non si può descriverli come se ne può parlare?
«Partiamo dall’educazione e dalla formazione da quando i bambini aprono gli occhi perché poi è difficile smontare un pensiero sbagliato. Dobbiamo lavorare di testa e non di pancia. Dobbiamo costruire: dare alle donne e agli uomini gli strumenti per capire cosa è realmente la violenza di genere e per attenzionare certi tipi di comportamenti».
Parlava di bambini e quindi c’entrano anche i genitori?
«Noi genitori abbiamo responsabilità nell’educare i ragazzi. Abbiamo testimonianze di giovani che hanno storie di violenza domestica pazzesca. L’educazione affettiva sessuale, la prevenzione passa da sia dalla scuola che dalla famiglia».
Allora non sono solo le donne le vittime?
«Insieme alle donne vanno aiutati i loro figli, anche loro porteranno dentro la violenza. Per questo bisogna appoggiarsi a personale preparato che sia in grado di capire l’ambivalenza delle donne vittime di violenza: vogliono, ma non vogliono; sono fragili ma poi si arrabbiano; hanno paura e poi ritornano. Il figlio è inserito in questa dinamica che è ciclica: c’è la fase luna di miele, quando il maltrattante si pente e in quel momento la donna torna indietro e spesso si porta indietro anche i figlio. Dobbiamo avere la capacità di spiegare questa cosa in modo che gli operatoria siano comprensivi nei confronti delle donne, casalinghe, professioniste, insegnanti, medici, che si sono convinte di essere inadeguate e incapaci».
Lei parla di violenza domestica prima che di genere.
«Sì, perché la violenza occasionale, come l’aggressione o lo stupro parte della stessa radice ma è occasionale, la violenza domestica viene coltivata a casa, dove prendono forma anche la personalità e le aspirazioni. I servizi sociali devono essere attrezzati di persone e mezzi adeguati. Anche noi avvocati dobbiamo essere preparati a gestire dinamiche di violenza e ci vuole pazienza perché ci si relaziona con donne complesse».
Perché si parla meno di violenza domestica?
«Se ne parla molto poco perché quando si parla di violenza di genere si sposta sulla causa penale, ma vogliamo parlare di quello che succede durante una causa di divorzio? Siamo abituati alla questione penale, ma le donne sono vittime anche quando non si arriva al penale e nella separazione si scatena l’inferno, dove il maltrattante dà il massimo e la donna o è molto solida ed è seguita oppure rischia di farsi risucchiare da situazioni molto stressanti. E allora la vittima preferisce non aggiungere altro stress e si ferma e resta nella violenza. Per questo tante non denunciano».
Eppure negli ultimi anni se ne parla di più.
«Quello che registriamo noi con dispiacere è che i numeri non scendono ed è perché probabilmente non riusciamo ancora ad arrivare alle donne che realmente vivono situazioni drammatiche ma talmente gravi che non permettono loro di guardare fuori e trovare una via d’uscita. Le panchine rosse non servono dobbiamo far capire che le persone vanno rispettate. I giovani non hanno contezza dei limiti in una relazione. Le ragazze non pensano che le cose possano arrivare ad un epilogo del genere». —
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