Suor Margherita: «Così è morto Luciani»

Vittorio Veneto. Parla la madre che trovò Giovanni Paolo I senza vita: era sereno, ci insospettì quel caffè non bevuto
VITTORIO VENETO. S’immagini un papa che va a dire alla suora: non occorre, sorella, che stiri tutta la camicia, bastano il polso ed il collo, il resto non si vede. Proprio così era Papa Luciani, vescovo di Vittorio Veneto negli anni ’60 come l’ha raccontato ieri sera a Belluno suor Margherita Marin, originaria di Riese, ma in convento a Vittorio Veneto, l’unica superstite delle quattro suore di Maria Bambina che hanno assistito Giovanni Paolo I nei 34 giorni di pontificato. È stata lei, insieme a suor Vincenza Taffarel, un’altra trevigiana, a trovarlo morto, la mattina del 29 settembre, all’alba. Per la prima volta suor Margherita ha raccontato in pubblico quella vicenda, molto discussa, affermando anche lei, come i medici, che si è trattato di un decesso naturale. In seminario a Belluno, infatti, è stato presentato il volume di Stefania Falasca “Papa Luciani. Cronaca di una morte” (Piemme), con la partecipazione dell’autrice, che fra l’altro è la vicepostulatrice della causa di beatificazione.


Suor Margherita quanti anni aveva nel 1978? E che faceva in Vaticano?


«Avevo 37 anni, ero la più giovane delle quattro suore che facevano parte della famiglia del papa e mi occupavo del guardaroba».


La prima innovazione di Giovanni Paolo I?


«Luciani ammise anche noi suore alla messa del mattino nella cappella del suo appartamento».


Lei faceva anche la sacrestana di questa cappella?


«Sì. Preparavo per la celebrazione della messa. Ma già alle 5.30 del mattino il papa trovava il caffè pronto in sacrestia».


Di che umore era quel 28 settembre 1978, prima della morte?


«Non era preoccupato. Quel giorno ha lavorato molto in appartamento, per preparare un discorso ai vescovi. Pregate, ci diceva, perché il Signore mi ha affidato un compito grande».


Vi parlava in dialetto veneto?


«Spesso. Il mattino presto leggeva i giornali, anche il quotidiano veneto. Talvolta li commentava con noi, in dialetto. “Ma vedi come mi hanno preso…”».


Non è accaduto nulla di strano 28 settembre?


«No. Si è svegliato, ha celebrato, ha fatto la colazione, ha letto i giornali e si è messo al lavoro. Poi è venuto in stireria dove si è appoggiato per scrivere qualcosa. E mi ha invitato a stirare solo i polsi e il colletto delle camicie perché, mi ha spiegato, il resto non si vede. Nel pomeriggio ha recitato i vespri con il segretario irlandese, ha cenato e ci ha dato la buonanotte. Mi ha chiesto se tutto era pronto per la celebrazione del mattino, aggiungendo: “se il Signore vuole, celebreremo…”. Era sereno, per nulla affaticato. In serata ha fatto una telefonata di mezz’ora al cardinale Colombo, arcivescovo di Milano, perché convincesse il salesiano Viganò ad accettare la designazione a patriarca di Venezia».


Si sa che quella sera Luciani ebbe una fitta al petto.


«Lo confidò ai segretari. Ma non ci diede peso».


E la mattina?


«Alle 5.15 portammo il caffè in sacrestia. Andai a prendere la spesa e alle 5.30, vedendo che il caffè era ancora lì, ci preoccupammo. Suor Vincenza si diresse alla camera, bussò e non ci fu risposta. Aprì e mi disse: “Vieni, vieni”. Quando si avvicinò al letto, esclamò: “Questo non me lo dovevi fare”. Il papa era disteso a letto, sereno. Aveva gli occhiali sul naso e in mano tre fogli. La morte era stata fulminea».


Che cosa c’era scritto in quei tre fogli?


«Riuscii a leggere solo una frase: “mangione e beone”. Una frase del Vangelo. Forse appunti per l’udienza del giorno dopo».


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