Sei anni fa l'incidente ad Altivole: ora Alessia è tornata a camminare

ALTIVOLE. Ci sono il mare di Riccione e l’acqua di una fontana, sullo sfondo della foto che Alessia e la mamma hanno scelto come simbolo della loro nuova vita. La vita “dopo”. Dopo l’incidente che nel 2012 costrinse Alessia Riccardi, all’epoca quattordicenne, a lunghe settimane di coma. Dopo le tante operazioni per rimettere in piedi una ragazza e i suoi sogni. Dopo la fisioterapia. Dopo la riabilitazione. Dopo l’ultimo intervento - a Rimini, la scorsa estate - che ha permesso ad Alessia di alzarsi dalla carrozzina.
E alla mamma, Laura, di dire: «Volevo far conoscere la storia di Alessia perché fosse di aiuto a tutti quei genitori, mariti, mogli, famiglie che ogni giorno si ritrovano catapultati in questo terribile mondo dopo un trauma cerebrale, spinale, ictus o altro ancora. Siamo qui a mostrare che sognare è ancora possibile».

L’incidente. È il 26 novembre 2012, lunedì. Alessia come ogni mattina esce di casa in bicicletta, pochi minuti sui pedali per raggiungere la fermata dell’autobus che la porterà al Maffioli di Castelfranco, dove studia. È una ragazzina di 14 anni. All’altezza di via Kennedy viene investita da un’auto di grossa cilindrata (il conducente si ferma, la soccorre, ripete: «Non l’ho vista»), sbatte contro il parabrezza e lo manda in frantumi, vola sull’asfalto. Arrivano l’ambulanza e l’elisoccorso. I referti dei soccorritori parlano di «grave trauma cerebrale», significa che Alessia è in coma, non parla, non si muove, senza l’uso delle macchine non respira nemmeno. Alessia dopo alcune settimane riapre gli occhi ma continua a non parlare e a non muoversi. È viva. Ma non è la persona di prima.
Il calvario. «Dal giorno dell’incidente sono iniziati tre anni di agonia da un ospedale all’altro» racconta oggi la mamma. Un’agonia che ha privato Alessia di tutto ciò che amava fare prima. Dalla scuola alle uscite con gli amici. Giornate scandite dalla fatica immane per portare a casa pochi, piccoli progressi a livello fisico. «Tre anni durante i quali molte persone ci hanno dato una mano» racconta ancora la madre, «la verità è che dopo l’incidente, tornati a casa dall’ospedale, una famiglia non sa cosa fare. La persona che abbiamo riportato a casa non è più la persona di prima. La comunicazione tra l’ospedale e le strutture territoriali non è sempre semplice. È concreto il rischio di restare bloccati, perché non si sa a chi rivolgersi. Eppure noi siamo stati fortunati perché ci hanno aiutati gli assistenti sociali, le Opere Pie di Pederobba, l’associazione Brain e i familiari nostri e di chi era già passato attraverso questo calvario. Alessia aveva concrete possibilità di recupero, noi ci abbiamo creduto».

La rinascita. Tre anni e mezzo per ricominciare a parlare. Quasi sei per rimettersi in piedi. Eppure quella foto, alla fine, è arrivata: madre e figlia in piedi davanti al mare, come tanto tempo prima. Non è tutto cancellato, ma la strada è quella giusta: «Mia figlia era tetraplegica, in quella foto invece è in piedi dopo l’ultima operazione. Ha molta forza di volontà. E ha mostrato a tutti che il percorso è terribile ma si può tornare a una vita normale». Difficile dire oggi quanto sarà completo il recupero fisico. Ma è confortante guardare in dietro alla strada già fatta: «Sì, Alessia ha di nuovo dei sogni. È tornata a scuola, ha degli amici, sogna di avere un fidanzato e una famiglia tutta sua. Vorrebbe lavorare a contatto con le persone, in qualche back office. Non avrà mai la mobilità che aveva prima, ma ha di nuovo una vita. E lo può mostrare a chiunque abbia bisogno di essere confortato».
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