Cessione del monastero, don Giulio rompe il silenzio: «La Chiesa cammini unita nella diversità»
Avanza la trattativa per la cessione del monastero, ma tra i fedeli cresce la preoccupazione: «Se lo vendono, qui scoppia la rivoluzione»

«A tutti voi, presenti e assenti, il mio ricordo nella preghiera». La saggezza di don Giulio Fabris, l’ex parroco di San Giacomo di Veglia, ha reso esplicita la mediazione della chiesa locale nell’affare del Monastero.
Don Giulio ha celebrato la prima messa domenicale dopo il cambio di guardia al vertice della clausura e l’allontanamento di sette monache, compresa l’ex badessa Aline Pereira. Nessuna parola di troppo da parte del prete, davanti ai quaranta fedeli, da una parte della chiesa, e ad una decina di suore, dalla parte opposta; invisibili, queste ultime: c’è un muro di separazione e solo l’altare è dotato di un’ampia finestra. Alla comunione si è aperta la grata e dieci le suore presenti.
La trattativa
Il momento è delicatissimo, perché madre Aline e le consorelle uscite intendono fare ricorso al Dicastero e, nel caso servisse, presentare denuncia contro l’Ordine Cistercense. Ma a pesare, da qualche giorno, è anche l’indiscrezione che sia a buon punto avanti la trattativa con una multinazionale per la cessione dello storico complesso. In questo caso le monache sarebbe destinate a Villa delle Rose per le monache.
Nessuno dei fedeli da cui abbiamo raccolto commenti, al termine della messa, si è però detto favorevole al trasferimento. «Se venisse davvero venduto, a San Giacomo e in città scoppierebbe la rivoluzione» ha confidato una coppia di anziani fedeli, che preferisce l’anonimato.
«Leggere i segni del tempo»
Don Giulio non ha mai fatto un cenno esplicito agli eventi di questi giorni, che conclude anni di aspro confronto. Ma non ha mancato i riferimenti leggendo tra le righe della sua omelia. Commentando il vangelo, dopo le letture proposte da due monache, ha osservato che l’invito di Cristo ad andare a pescare significa che «dobbiamo ritornare alla vita normale, quella di tutti i giorni». Bisogna procedere insieme, ha insistito, nella «collegialità» che vuol dire – ha specificato – «saper leggere insieme i segni dei tempi, ciò che è giusto da ciò che non lo è, la verità dalla non verità».
Ha quindi citato il filosofo Umberto Garimberti per dire che la Chiesa deve passare da «una coscienza sacerdotale a una coscienza profetica», cioè «non basta difendere il passato», ma «bisogna mettersi in ascolto autentico della parola di Dio», in modo – ha ulteriormente specificato – da «risultare una Chiesa che cammina unita ma nella diversità». Cosicché – ha insistito – «non bisogna avere paura della diversità, che è anzi una ricchezza: consente di approdare più facilmente alla verità».
La rassegnazione
E, quasi in riferimento alle reciproche accuse mosse tra Roma e San Giacomo, per quanto accaduto nel monastero, don Giulio ha precisato che l’autentico servizio si ha «quando non si dominano le coscienze», ma «le si aiuta alla responsabilità». Insomma, ha concluso, «prima di essere maestri bisogna saper fare i discepoli».
A chiedere qualcosa di più a don Giulio dopo la messa sul suo afflato ecumenico, però si ottiene solo un sorriso, quasi di rassegnazione. Sicuramente è il prete che più di ogni altro ha accompagnato le vicissitudini del convento.
Ha provato, probabilmente, a trovare una sintesi, ma senza riuscirci (vista la deriva che hanno preso i fatti). Spera ancora, però, che la fine non sia affatto la chiusura di quello che – dicevano alcuni fedeli – «è il nostro orgoglio».
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