Rinati grazie al basket: la forza dei ragazzi disabili della Pdm di Treviso

MONASTIER. Visti da fuori, a girare per il campo con quelle carrozzine, sembrano autoscontri. A dirlo è uno di loro, e questo già racconta una cosa precisa: niente pietismo, no al politically correct a tutti i costi, qui ci si accetta come si è e l’autoironia fa parte di ciò.
E poi, ci sono due modi di guardare un atleta disabile: uno è vedere il disabile, l’altro l’atleta. Se date un occhio a come si allenano questi ragazzi, se li sentite parlare di squadra e gruppo, se guardate come alzano l’asticella degli obiettivi, beh, i dubbi se ne vanno subito.

La Pdm Treviso, Polisportiva disabili di Marca, ha presentato ieri a Monastier la nuova stagione agonistica. C’è un campionato da vincere per tornare in serie A, e c’è una wild card per partecipare al preliminare di Euroleague 2 con avversari che arrivano da Tolosa, Anversa, Valladolid. Si allenano duro, due volte a settimana, e poi vanno in campo per la partita.
Uno di loro viene addirittura da Trieste: un migliaio di chilometri ogni settimana per il basket. Basket è proprio la parola che racchiude tutte le loro storie, il motore che li fa lottare e che li ha spinti a guardare avanti nel momento più nero. Osteosarcoma, incidente di moto, malattia, schianto in auto da bambino e poi tetraplegia: ciascuno di loro ha una storia drammatica da raccontare, ma lo fa guardandoti negli occhi e descrivendo come l’ha superata, non come ne è stato travolto. E il basket è per tutti loro una terapia straordinaria.

«Ho avuto un incidente stradale all’età di otto anni e ho perso una gamba, ora ho una protesi – racconta Marco Dal Fitto – poi ho affrontato operazioni e cure riabilitative per tornare a camminare. A sedici anni è stata la fase più critica, quando ti vergogni persino per un brufolo sul naso, figuriamoci per una gamba finta. Non volevo andare al mare coi miei amici, mi vergognavo di mostrarmi. Non è stato facile superare tutto ciò ma il basket mi ha aiutato, e lo fa ancora oggi, a capire che si possono superare la fragilità e le paure che ti portano a pensare di essere inferiore agli altri».
Vickson Ezeanyim arriva col berrettino dei Cleveland Cavaliers, l’ex squadra di LeBron James. È l’unico colored della squadra, origini nigeriane ma nato in Italia, a Roma. «Ho avuto un osteosarcoma a 14 anni – racconta Vickson – con disarticolazione dell’anca. Ero un ragazzino, non è stato facile affrontare tutto questo, chemioterapia compresa. Poi mi hanno consigliato il basket». Per tutti è una svolta, una pagina che si gira, qualcosa che scatta.
«Ho incontrato altri ragazzi, altre storie, lo sport mi ha permesso di crescere, di migliorarmi». Sullo schermo passa un video dei loro allenamenti: si suda solo a guardarli, tra scatti, incroci, schemi, uno che tira l’altro a mo’ di locomotiva per potenziare le braccia. Ma le loro non sono solo storie di basket e disabilità: lavorano, hanno famiglie, viaggiano. Marco Zanin, 34 anni, di Orsago, ha lavorato per sei anni all’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni unite.
È rimasto paraplegico a 14 anni: «Un incidente in Vespa – racconta – l’ultimo giorno di scuola, alla fine della prima superiore. Ho iniziato a giocare nel 2000, poi ho lasciato Treviso per l’università a Padova ma ho continuato a giocare anche lì». Ha giocato anche in nazionale, e ora torna qui per aiutare il gruppo a crescere ancora.
La federazione sta cercando di portare avanti un progetto: ogni squadra di basket “in piedi” deve averne anche una in carrozzina. Qui siamo già avanti: tra la Pdm e la Treviso Basket De’ Longhi il progetto c’è già, «anche se la collaborazione non ha nulla di scritto ma funziona benissimo e lavoriamo assieme in molte cose», spiega il presidente Paolo Barbisan. Proprio la De’ Longhi ha voluto fare un in bocca al lupo ai ragazzi della Pdm per la nuova stagione attraverso il general manager Giovanni Favaro: «Siamo particolarmente orgogliosi di essere legati fin dal nostro primo anno a questa realtà del basket in carrozzina trevigiano, ci alleniamo nella stessa “casa” e portiamo gli stessi colori, quindi ci sentiamo parte di un’unica grande famiglia». –
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso








