«Qui a Casa dei Gelsi si costruisce la pace»/FOTO

Marialuisa, René, Abdel: pensieri e messaggi delle 1.500 malati che negli anni hanno abitato l’hospice. Ritmi di vita, spazi, iniziative. Gara di solidarietà per aiutare l'Advar
TOME' TREVISO CASA DEI GELSI ADVAR, VIA FOSSAGGERA,4/C
TOME' TREVISO CASA DEI GELSI ADVAR, VIA FOSSAGGERA,4/C

Marialuisa ha 76 anni, una luce di ragazzina che illumina gli occhi blu, un sorriso dolce che le accende lo sguardo. «Qui si sta bene», dice a chi si ferma a salutarla, «qui io sono a casa».

Elena, 35 anni, aveva trasformato la camera da letto in un miniappartamento. Accanto a lei, ogni giorno, le sue quattro bimbe. E, se il lavoro glielo consentiva e lui poteva pagarsi il viaggio dalla Romania, si univa anche il marito muratore. «Grazie per l’amore», ha sussurato Elena prima del congedo.

René, pianista e compositore, è arrivato all’hospice come volontario. Poi si è ammalato. Quando se ne è andato ha lasciato il suo pianoforte e un testamento di cui nessuno, lì dentro, sapeva dell’esistenza: 800 mila euro, tutti devoluti alla struttura.

Abdel, marocchino, ha donato un tappeto persiano e un ringraziamento prezioso: «Qui dentro avete costruito la pace»

Marialuisa, Elena, René, Abdel e con loro altre 1.500 persone, sono e sono state, ospiti della Casa dei Gelsi dell'Advar. L’hospice che dal 2004 segue i malati terminali di cancro - e d’ora in avanti anche di altre patologie - è un’isola di serenità. Esattamente questo. «Non un luogo di morte, ma un luogo di vita», ripete la presidentessa della Fondazione Amici dell’Advar, Anna Mancini. Suo marito, l’urologo Alberto Rizzotti, è morto di cancro nell’88. E lei, giovane vedova, decise che, se non la malattia, almeno il dolore e la solitudine di chi soffre, potevano e dovevano essere sconfitti. Con l’aiuto di tutti. È nata così, dall’aiuto di tutti, la Casa dei Gelsi. E ora, facendo appello ancora una volta all’intera comunità trevigiana, la stuttura potrà ingrandirsi.

Nel villino di via Fossaggera, dunque, non si va a morire; più d’uno tra gli ospiti (il 20 per cento per l'esattezza) è stato dimesso. All’hospice si va per vivere bene il tempo che rimane, seguiti dai medici senza camice del dottor Antonio Orlando, dagli infermieri, dagli psicologi.

Ogni giorno, per ogni paziente, c’è un briefing dell’intera équipe di cui fanno parte anche gli operatori socio-sanitari. Ma poi è l’ospite, e solo lui, che sceglie e decide per sè.

La Casa dei Gelsi non è un ospedale, o perlomeno non un ospedale come gli altri. Qui la casta medica non esiste, qui ogni paziente è unico, qui i familiari non sono ingombranti presenze, ma figure preziose e indispensabili, qui il rapporto con l’esterno è continuo e incoraggiato.

Il giovedì, nel salotto al primo piano - divani in pelle e morbidi tappeti sul caldo parquet - c’è l’appuntamento con la musica, con la poesia, con la lettura proposte dai volontari. Casa dei Gelsi insomma è aperta: tutti possono entrarci, in qualsiasi momento. E gli ospiti possono invitare i loro familiari, i loro amici a pranzo, a fare una passeggiata nel parco all’inglese con laghetto (curato da una squadra di giardinieri volontari), a chiacchierare nel luminoso bovindo affacciato sul verde. Al piano di sotto, c’è la sala di preghiera: niente altari, niente immagini sacre. Perché ognuno - cristiano, musulmano, buddhista o altro che sia - può parlare lì dentro con il suo Dio. «Qui - ha scritto qualche giorno fa Francesco sul libro degli ospiti - si respira aria di vita, di disponibilità, di umanità». Qui, quando il tempo si fa stretto, si ritorna alla vita, al suo senso più profondo.

Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso