Pra’ dei Gai, il bacino “urgente” da 40 anni

Burocrazia, dossier, annunci. Così l’opera sul Livenza aspetta da decenni Le guerre con il Friuli, il balletto delle cifre, i fondi parziali: una storia italiana
Di Andrea Passerini

MOTTA DI LIVENZA. «Dopo quasi quarant'anni è stata decisa la strada da percorrere, le proposte ci sono e i progetti sono concreti. Ora dobbiamo affrontare i grandi problemi idrogeologici, perché non ha più senso lavorare per l'ordinaria amministrazione». Così parlò, non Zarathustra, ma Antoni Rusconi, segretario generale dell’autorità di bacino Alto Adriatico. Anno del Signore 2004, a Motta di Livenza. In un convegno che annunciava per il 2005 il cantiere del bacino di laminazione di Pra’ dei Gai.

Undici anni dopo. Undici anni dopo, siamo ancora lì. O quasi. L’assessore regionale all’ambiente Maurizio Conte annuncia in questi giorni – dopo la nuova alluvione, ma ora si susseguono ogni 2-3 anni, non più ogni decennio – che il project financing del progetto è approdato in commissione Via, a Venezia, che c’è una buona copertura finanziaria (22 milioni su 30). E che dunque siamo, o saremmo, in dirittura d’arrivo per vedere il grande bacino di laminazione. Passa il tempo, e quella splendida area naturalistica ai confini tra Veneto e Friuli è ancora lì. Miracolosamente intatta, in un Veneto divorato dalla febbre dei capannoni. E’ diventata un’oasi di paesaggio veneto incontaminato, al punto che l’Unione Europea ha voluto proteggerla con l’etichetta Sic, il livello di massima protezione ambientale. La sola certezza, adesso, è che il progetto del bacino al Pra’ avanza. A a fatica, ma avanza. Piano piano, lemme lemme.

Un dossier di 43 anni fa. Niente, però, in confronto agli anni. Sono diventati oltre 50 dall’alluvione più tristemente nota; e ne sono trascorsi 43 dal fatidico dossier De Marchi, che nei primi anni ’70 fece luce sulle cause della disastrosa alluvione del 1966. Mezzo secolo. Era un mondo in bianco e nero, nel frattempo si è colorato e globalizzato. Già allora la relazione De Marchi individuava nei Pra’ dei Gai l’area cruciale per risolvere i probelmi idrogeologici del Livenza. Lo sfogo naturale in caso di piene. Mezzo secolo. Chi era ragazzo allora è diventato nonno, gran parte degli alluvionati non ci sono più.

Una storia italiana. Mezzo secolo. Una storia italiana, che attraversa anche il secondo millennio, l’hi tech, il mondo 2.0. La battuta, se si vuole ridere, è facile: ne è passata di acqua.... al Pra’, invaso sistematicamente ogni volta che dal cielo cadeva acqua a catinelle per giorni e giorni. Ben più dei 26 milioni di metri cubi d’acqua che il bacino garantisce come cisterna naturale, e che adesso si vuole trasformare in bacino artificiale. Se non si vuole piangere, si dovrà ammettere che questa è una storia italiana. Più precisamente, tutta veneta e nordestina, visto che c’è di mezzo anche il Friuli. E dove Roma, la capitale, il palazzo, c’entrano per una volta ben poco.

Ordinaria burocrazia. Un’ordinaria vicenda di burocrazia. Di Regione e Comuni, di Province e comunità. Se non ci fossero di mezzo l’assetto corretto di un bacino come quello del Livenza e la sicurezza di centinaia di migliaia di abitanti, in un territorio nel frattempo diventato anche grande distretto industriale del mobile. Storia di uno stillicidio: di comuni l’un contro l’altro armati, di timori di chi sta a valle contro chi sta a monte. Di ambientalisti e comitati, preoccupati di tutelare un’area con pochi eguali in tutto il Nordest. E di esperti, ingeneri e tecnici che paventano danni a flora e fauna, e allo stesso terreno, per il deposito di limi. Spulciare gli archivi è avvilente. Governatori e assessori, Galan e Zaia, Stival e Conte solo per fare qualche nome hanno annunciato puntualmente l’opera «a breve», hanno «reperito i fondi». Ma siamo ancora qui, alla commissione Via.

Il balletto delle cifre. È imbarazzante. Nel 2003 si parlava di 35 milioni: poi diventati in poco tempo 42; adesso siami scesi a 30. Ma ancora a ottobre 2013, solo mesi fa, il governatore Zaia parlava di «25 milioni disponibili su 39 di costo». Attenzione: il piano delle opere pubbliche (luglio 2012), ne stanziava 55. E pochi mesi prima, l’allora assessore Daniele Stival diceva che ne sarebbero serviti solo 27, di cui 20 da fondi nazionali e altri 7 recuperati (con gran vanto) dalla giunta.

Adesso siamo a 22 su 30, parola dell’assessore Conte, che in questi giorni ha dovuto fare il punto sugli 11 bacini di laminazione attesi dal Veneto sin dall’alluvione del 2010 e ancora praticamente incompiuti, eccezion fatta per quello di Caldogno. Il governatore si arrabbia: «Sono l’unico ad aver messo in moto i progetti, dopo decenni di stallo». Ma dopo 4 anni deve rifare i conti con l’alluvione, più o meno nelle stesse zone del 2010. E può essere l’attentuante questo clima impazzito che trasforma il Nordest in un’altra regione indiana?

La fase chiave. Sullo stallo dei Gai, però, una fase chiave c’è. Fra 2006 e 2007 la Provincia di Pordenone e 5 comuni (Brugnera, Pasiano e Prata, poi Sacile e Pordenone) si oppongono fermamente al progetto. Braccio di ferro interminabile: vertici e veti incrociati, mediazioni, contesa portata sul tavolo dei governatori Galan e Tondo, Zaia e ancora Tondo. Invano: il campanile è più forte delle stesse affinità politiche. I fiumi sono qualcosa di pre-politico, memoria e cromosomi, materiale immateriale, questione ancestrale, identità che mettono in crisi persino la territoriale Lega.

Il Veneto tira dritto. Alla fine il Veneto deciderà di tirare dritto. Ma solo nel 2012, dopo che un lustro è passato praticamente invano, a dispetto di chi si è speso per uno straccio di intesa. L’ex direttore del Genio Civile di Treviso, Adriano Camuffo, parlava da profeta nel 2008, andando in pensione: «Sono coinvolte due Regioni, con proprie leggi e regolamenti, si sovrappongono competenze a complicare le cose. Nonostante i protocolli d'intesa ad hoc, i tempi si allungano, sono imbarazzanti, non rispondono all’esigenza di rapidità». Doveva semplificare tutto il passaggio delle competenze dal Magistrato alle Acque alla Regione, ma non sono stati snelliti gli iter per l'approvazione delle opere.

Sarà la volta buona? Attenzione alle elezioni: prima delle urne le promesse corrono, salvo poi rallentare dopo gli scrutini e rianimarsi ad ogni appuntamento alle urne.

Il timore è che alla fine, comunque vada, anche il grande bacino potrebbe non essere il Totem che protegge da tutti i mali, ma solo un palliativo. Bello, ma non risolutivo. Ne è certo Luigi D’Alpaos, uno dei massimi esperti di idraulica d’Italia, che collaborò con De Marchi per il fatidico dossier post-alluvione. «Pra’ dei Gai è un progetto che assomiglia a una storiella», dice lapidario, «è come se un uomo che non ha da vestire si comprasse una farfallina per lo smoking. E' un'opera complementare, se a monte non si fa nulla non servirà». E allora torniamo su in Friuli, nel comune di Raba, alla traversa di Colle e alla diga di Ravedis, agli argini friulani, a un accordo interregionale...

Buon che nel frattemnpo, specie dopo l’alluvione del 2010, a valle del Pra’, Regione e comuni e Genio Civile, hanno rafforzato gli argini, potenziato le difese, migliorato i regimi della Livenzetta. Il clima si sarà anche tropicalizzato, ma stavolta Motta si è salvata, come parte di Meduna. Lungo il fiume e sull’acqua, intanto, ennesima conta dei danni. Perché tutto scorre, diceva il filosofo. L’acqua, che ha il difetto di allargare quando è troppa, ma anche le carte.

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