«Pianura a secco per salvare il Piave»
Allarme del Consorzio di Bonifica: direttiva Ue impone di raddoppiare la portata del fiume, campi e canali senza acqua

Ferrazza Vidor fiume Piave
TREVISO. Salvare il Piave, o salvare i campi? In cinque anni, secondo l’indagine di Enel e Consorzio di Bonifica, per la Marca rischia di profilarsi uno scenario apocalittico. Laghi alpini d’invaso a secco. Canalette vuote, colture in ginocchio, perdita di posti di lavoro. Portata del Sile dimezzata, Treviso da città d’acqua e città del fango. Il motivo? La direttiva 2000/60/CE, recepita dal governo a febbraio di quest’anno, impone di sostituire l’attuale “deflusso minimo vitale” del Piave (circa 10 metri cubi al secondo a Nervesa) con il “deflusso minimo ecologico”, pari a 20,3 metri cubi al secondo. Più del doppio. Acqua che, necessariamente, non sarebbe più deviate sulle colture.
«La situazione è drammatica, rischiamo di dover dare al Piave l’acqua necessaria a tutte le altre funzioni socio-ambientali ed economiche» spiega Giuseppe Romano, presidente del Consorzio di Bonifica Piave. «Il governo ha recepito una direttiva europea con 17 anni di ritardo. Le analisi nostre e dell’Enel sono chiare. Raddoppiare l’acqua destinata al Piave comporterà una serie di problemi insostenibili. Il rischio di non riempire i laghi d’invaso raddoppierà, significa avere gli invasi vuoti in 5 anni su 11. In estate, in due giornate su tre non avremo l’acqua per il fabbisogno delle colture. In inverno, l’acqua sarebbe garantita soltanto un giorno su due. A Treviso arrivano tutti i giorni 6 metri cubi al secondo di acqua dal Piave, la “città dell’acqua” rischia di scomparire». Il problema principale sarebbe per le colture: il settore primario della Marca vale 1,5 miliardi di euro di Pil, e 10 mila posti di lavoro. Prosecco, radicchio, asparago: come se i “tesori” di Marca da qui al 2021 dovessero lentamente morire di sete, per salvare il grande fiume. L’impatto economico sarebbe devastante.
Dalle colture il Consorzio di Bonifica propone di partire, per trovare una soluzione: «A Treviso ci sono 30 mila ettari che oggi sono irrigati a scorrimento, se riuscissimo a trasformare gli impianti in pluvirrigui, cioè a pioggia, potremmo risparmiare 15 metri cubi al secondo. Per la ristrutturazione degli impianti, tuttavia, servono 300 milioni di euro, soldi che non sono nel bilancio di alcun ente se si esclude lo Stato italiano».
Romano ha proposto a sindaci ed enti, altrettanto preoccupati per le conseguenze che può avere la direttiva sul deflusso minimo ecologico, anche di destinare a grandi invasi d’acqua le cave dismesse o poco utilizzate. Il tempo stringe. Le simulazioni del Consorzio dicono che in inverno le derivazioni da Fener e Nervesa potrebbero ridursi o interrompersi del tutto per un certo numero di giorni. «Parliamoci chiaro: salvare il Piave e il suo ecosistema, pure tramite la riduzione dei prelievi, è una missione anche nostra» conclude Romano, «ma non si può farlo mettendo in ginocchio un intero sistema economico. Prima bisogna trovare delle alternative, e avere i contributi giusti per metterle in pratica».
Tra gli enti sollecitati a cercare una soluzione al problema c’è la Provincia. Il presidente, Stefano Marcon, è sulla stessa linea di pensiero di Romano: «Il quadro che si prospetta è catastrofico. Le proposte del Consorzio ci trovano d’accordo: l’attuazione della direttiva europea va condizionata a un programma di conversione di 30 mila ettari di colture all’irrigazione pluvirrigua, al posto della più dispendiosa irrigazione a scorrimento. Quei 300 milioni necessari all’attuazione del progetto li deve mettere lo Stato. Un’annualità come questa, assai poco piovosa, potrebbe far restare a secco le nostre più importanti colture».
(a.d.p.)
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