«Noi e Yannick Noah suonare per esistere»

Il gruppo soul nasce al Binario 1 ed esordirà tra un mese
«Solo Dio può darmi ciò che mi serve. L'uomo non può». Un messaggio di speranza. E il dio in questione è lo stesso dei cristiani nostrani.


Nessun equivoco, nessuna contrapposizione. Il ritmo ricorda quello della musica nera delle Antille, gli strumenti sono un basso, due bongos, una chitarra, una tastiera (prestata loro da una volontaria e comprata al Lidl), una bottiglia, le maracas. Le voci sono molte, sei, con una che intona e lancia il motivo, le altre seguono. Non potrebbe mai essere una musica per i cd commerciali: ogni brano dura almeno cinque minuti e questo perchè la musica serve per ballare e più c'è musica e più si balla.


Spesso si tratta di "pezzi" rubati alla tradizione popolare nigeriana, altre volte al blues afroamericano. «Stiamo facendo anche qualcosa di nostro, ma sarà meglio parlarne quando sarà pronto», dice il leader del gruppo che sta provando, come ogni sabato, al circolo Arci Binario1, sotto il cavalcavia della stazione.


Emmanuel Imafindon, Christopher Dumbiri Uweru, Acha Chidi, Cristian Monye, Succes Nwanoi, Boi Hope Chukwuka e Obi Collins, a parte il leader che è italo-congolese (passaporto italiano) e fa l'operatore sociale, sono tutti richiedenti asilo nigeriani; si sono conosciuti a due passi da qui, alla cooperativa Hilal, e aspettano più o meno con soddisfazione di essere accettati come rifugiati in Italia.


Due di loro stamattina hanno avuto notizia di essere stati "negati" e non hanno una bella giornata. «"Cosa dobbiamo fare più che essere brave persone? Non conta, vero? A decidere le "adozioni" sono altri criteri, non certo la volontà di integrazione».


Eppure vengono tutti dal dramma infame dei campi libici, da cui si può uscire violentati o con due ossa rotte. Eppure lavorano, eppure fanno volontariato, non hanno rogne con la giustizia, eppure hanno fatto tutto per bene.


Si consolano con la musica ed attendono con fiducia l'esordio ufficiale, nel corso della festa del circolo, il 22 dicembre, dove ci troviamo in questo momento. Un momento temuto ma che li inorgoglisce.


Il leader, l'operatore sociale congolese-italiano vanta un nome da miliardario del tennis francese: Yannick Noah. «Ma di miliardario non ho nulla, e, aperte il nome importante, ho pure un cognome: Tshimbalanga».


La band porta il suo nome: Noah & The Soultellers. Anche il basso elettrico che suona dall'età di 17 anni, non è una fuoriserie della strumentistica, ma un onesto "operaio" a 4 corde.


Christian, il tastierista, è un pastore evangelico, nel suo biglietto da visita, un cui una mano nera ne stringe una bianca, si legge "Io vi lascio la Pace, vi do la mia Pace. Io non vi do come il mondo dà, il vostro cuore non sia turbato e non si sgomenti". Dall'armonium in chiesa alle tastiere etnico-elettroniche il passo è stato breve. La voce intonante è quella di Emmanuel, mentre Acha suona ...una bottiglia e Cristopher le percussioni più risparmiose, ovvero il vecchio e africanissimo bongo, anche per cantare la gloria di Dio in una versione da brividi di Allelujah di Leonard Cohen.


Si sono ritrovati tutti, la prima volta, alla "scuoletta di Jelena", facente parte del progetto dell'Università del Volontariato, creata dalla loro insegnante di italiano e dove si imparano a fare a fare un sacco di cose, dalle lasagne "a mano" al taglio e cucito. «Da allora - spiega Christo - abbiamo suonato sempre tra di noi. La consideriamo una cosa importante anche così, ma sarà più bello quando potremo farlo in pubblico e capire se piace o no». Proviamo a capire cosa fanno per vivere, ma non conviene: quei lavori sono spesso soluzioni appese a un filo. anche da un punto di vista sindacale e normativo, per non dire retributivo. Non conviene. Ma s'intende che non hanno paura perchè ne hanno già viste di ogni genere, compresi i maltrattamenti e le violenze negli hub libici.


Qui sognano di tornare ad essere "normali" e l'inizio sta proprio in questo, per loro: suonare, fare gruppo, dividersi i compiti per ottenere una buona musica, fare sentire la loro voce. Magari alla fine di 10 ore di lavoro più o meno pagate, magari senza il diritto di darsi per malati. «Ma questo succede anche a tanti nostri coetanei italiani: condividiamo almeno questo. Consola poco».


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