Niccolò, la vita in punta di piedi del ragazzo venuto dalla Russia: il ritratto del 34enne morto nel rogo
Martini era stato adottato da una famiglia del Montebellunese, poi si era spostato nel 2018. Negli ultimi tempi soltanto qualche lavoretto saltuario e il progressivo isolamento. Una conoscente: «Lasciato solo nei momenti più difficili»

Ci sono esistenze che avanzano in punta di piedi. Come quella di Niccolò Martini. O, per chi lo conosceva meglio, Nicolai. Per le piccole realtà trevigiane che ha attraversato negli anni, è stato «un tipo schivo» e «di passaggio».
A Perm, in Russia, è stato Nicolai, il bambino nato il 25 febbraio 1991 e adottato all’età di tre anni da una famiglia montebellunese. Nella casa trevigiana, aveva iniziato una seconda vita e trovato un fratello con cui, però, aveva ormai perso ogni contatto.
«Verso i diciotto anni suonava la batteria in un gruppo con mio figlio, ma ha rinunciato poco dopo», ricorda Marta Rizzardini, residente a Montebelluna, «era un ragazzo molto affettuoso, ma profondamente sfortunato. Dava tutto ai suoi amici, ma non tratteneva parole taglienti per chi gli faceva un torto. Aveva bisogno d’aiuto. Non appena si è trovato ad affrontare un momento di crisi è stato lasciato solo. Gli hanno chiuso le porte in faccia».
A Pederobba, al civico 3 di via Cal Granda, è stato l’inquilino di una villetta a tre piani dalle pareti bluastre. Dietro gli scuri verde acqua, è stato dal 2018 il marito di Monica Cristina De Almeida e il padre di una bambina.
«Ha trascorso diversi anni in quella casa», racconta la dirimpettaia peruviana, «alcuni condivisi a fianco di una ragazza che poi, però, non ho visto più. Mi confessò che si erano lasciati».
A volte Niccolò si tratteneva di fronte al suo cancello per scambiare qualche parola. «Faceva molta fatica a parlare del suo passato, la sofferenza non lo ha mai abbandonato», prosegue, «non è mai riuscito a scrollarsela di dosso. Non mi ha mai detto quale lavoro facesse, ma si assentava spesso e a lungo». La dirimpettaia conferma che in quella casa era solo un inquilino di passaggio.
«Quando se n’è andato», prosegue, «il proprietario ha dovuto forzare la porta per entrare e da quel momento nessuno ci ha più vissuto stabilmente. Ma non c’è da stupirsi, in questa zona le persone vanno e vengono».
A Montebelluna, era tornato dopo anni. La vita lo aveva spinto talmente ai margini da trasformarlo in una presenza silenziosa, con qualche piccolo precedente. Al «cosa di fai da queste parti?» non faceva che rispondere «una passeggiata». Rizzardini, la vicina che lo aveva visto crescere, lo ha avvistato in città di recente. «Lo vedevo arrivare a piedi da Caerano, con il cappuccio sempre calato sul viso», racconta, «quando gli chiedevo cosa facesse e dove vivesse mi rispondeva che lo venivano a prendere con un furgone, lo accompagnavano al lavoro e poi lo riportavano indietro a fine giornata. Mai avrei immaginato che avesse trovato rifugio proprio qui, così vicino a casa mia. Lo incontravo a piazza Verdi o al parco di via Cima Mandria, ma non lungo questa strada».
Nella villetta a due piani del civico 7, disabitata da qualche anno dopo la morte dei proprietari, si era costruito un giaciglio di fortuna. Anche qui, era arrivato ancora una volta in punta di piedi. Nella prima mattina di martedì 5 agosto, il boato e le fiamme non hanno lasciato spazio all’isolamento. In quella casa, in cui si era ricavato un angolo protetto per la notte, è morto da solo a 34 anni, avvolto da fumo nero e mozziconi di sigaretta.
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