La Russia e i lavori Expo mai pagati: fallita Sech costruzioni metalliche

REFRONTOLO. È fallita la Sech Costruzioni Metalliche Srl, storica azienda del Quartier del Piave, e il botto è di quelli importanti. Una storia quarantennale spazzata via nel momento in cui sembrava aver raggiunto l’apice: una commessa prestigiosa per alcuni importanti lavori al padiglione russo di Expo 2015. Da quel momento, però, tutto è andato storto. I russi non hanno mai pagato quella commessa, lasciando la Sech in credito di oltre 400 mila euro e aprendo di fatto la crisi che ha portato al fallimento. La mancanza di liquidità ha strozzato l’azienda con i propri fornitori, mentre altri clienti non hanno pagato ordini già evasi (secondo la Sech, i crediti vantati al momento del fallimento si aggirano sui 4 milioni di euro).

La scure del Tribunale di Treviso si è abbattuta sull’azienda, che aveva sede nell’ex capannone dell’Indesit a Refrontolo dopo diversi anni a Barbisano di Pieve, due giorni fa, il 17 ottobre, con la sentenza di fallimento che accoglie l’istanza di alcuni fornitori. Il titolare, Alessandro Cesca, è affranto: «Ho dato lavoro a un centinaio di persone dell’indotto, e al massimo dello splendore avevamo oltre quaranta dipendenti. Adesso eravamo rimasti una decina. Quello che è capitato a me può capitare a tutti, è la fine del Nordest. E nessuno ci ha aiutati». È una magra consolazione, ma la Sech ha comunque lasciato in tutto il mondo segni importanti della sua decennale attività. Dal 2006 al 2008 ha installato tutti i tornelli dello stadio di San Siro, a Milano. Prima, aveva costruito le parti metalliche del centro commerciale “Pievigina” a Pieve di Soligo. E ancora, il museo del tappeto a Baku (in Azerbaijan), la stazione di Porta Susa a Torino, la sede di Luxottica ad Agordo. Il padiglione russo all’Expo di Milano è stato l’inizio della fine. La Sech si è trovata al centro di una vertenza internazionale, un vero e proprio incidente diplomatico che ha riguardato nove imprese italiane. I russi hanno ritardato il pagamento contestando (a tutte) delle non conformità dopo la consegna dei lavori. Di queste nove imprese qualcuna ha raggiunto una mediazione al 20 o al 30 per cento degli importi dovuti, altre ditte – come la Sech – hanno intrapreso le vie legali.
La beffa è che la prima sentenza su questo caso è in agenda a dicembre: «Noi però siamo già falliti, e anche se dovessimo vincere in tribunale, temo che quei soldi non arriveranno mai» commenta Sech «il problema è che in questa battaglia ci hanno lasciati soli. La politica ci ha abbandonati. Con quella storia si è innescata la catena che sta portando alla distruzione di tutto il nostro sistema di imprese: i clienti non mi pagano, io non riesco a pagare i fornitori». Eppure la politica era stata vicina alla Sech in una fase particolare della sua storia, e cioè nel 2013, quando l’azienda di Cesca si era trasferita dalla sede storica di Barbisano al capannone dell’ex Indesit a Refrontolo, promettendo di riassumere anche cinque operai rimasti senza lavoro dopo la chiusura del colosso degli elettrodomestici. In quell’occasione, l’assessore regionale Elena Donazzan aveva definito «eroi» gli imprenditori della Sech che recuperavano uno stabilimento dismesso nel cuore della zona industriale di Refrontolo e ridavano speranza ad alcune famiglie. «Me lo ricordo bene» racconta Alessandro Cesca «ma da quel momento siamo rimasti soli. Ora nessuno di noi sa come ripartire, e da dove».
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