Il vuoto della politica, terra di secessionisti

l Monòpoli dell’autonomia: come nel vecchio e popolare gioco da tavola, se azzecchi il tiro sbagliato devi “tornare al via”; e se ti va proprio storta finisci nella casella “in prigione”. Che, ironia della sorte, si trova subito prima di quella “via Roma”. Gli arresti di ieri fanno tornare a quell’8 maggio 1997, quando i “serenissimi” salirono sul campanile di San Marco. Le analogie sono tante. A partire dall’epicentro geografico, Casale Scodosia: lo stesso paese della Bassa padovana dove, il 24 agosto 1996, si tiene il congresso del Veneto Serenissimo Governo. A guidarlo sono due tra gli arrestati di ieri: Luigi Faccia, presidente, e Flavio Contin, vice. Ma già da tempo c’è stata una svolta, con l’arrivo nel 1992 di Fausto Faccia, fratello di Luigi, che ne diventa la vera mente: sarà lui a guidare l’assalto di San Marco. Già allora appaiono i cosiddetti carri armati, che all’epoca sono due, e vengono ribattezzati alla veneta “tanko”. Tutt’altro che clandestini: specie di domenica subiscono un collaudo alla luce del sole, in giro per le campagne. Uno dei due, il “Marcantonio Bragadin”, verrà usato a San Marco, ed è lo stesso sequestrato ieri dai magistrati di Brescia. In tutti questi anni non è stato nascosto, anzi: spesso e volentieri lo si è visto nelle tante feste venete organizzate nel territorio.
Anche allora, come oggi, c’è un’associazione. Che mette in cantiere un’azione dimostrativa, da attuare nella simbolica data del 12 maggio 1997, duecentesimo anniversario della caduta della Serenissima. Con un progetto: il cosiddetto Perl (piano di emergenza per il risveglio del leone). L’idea di fondo, allora come ora, è scuotere l’opinione pubblica veneta: è da escludere tuttavia, per il presente, ogni collegamento con il referendum di Plebiscito.eu (anche se uno degli arrestati, Franco Rocchetta, figura tra i suoi sostenitori), perché l’inchiesta dei magistrati bresciani è partita quasi tre anni fa. Per riuscirci, il gruppo si dota anche di un trasmettitore radio in onde medie, installato su un camper, con il quale già da fine 1996 si effettuano trasmissioni pirata; il top è il 17 marzo 1997, quando al Tg1 serale delle 8 va in onda un proclama che annuncia l’intento di “liberare la Veneta Patria dal giogo dell’occupante italiano”: lo stesso obiettivo odierno. Intanto, a fine agosto ’96, sempre a Casale Scodosia, si è messa a punto l’azione di Venezia dell’8 maggio successivo: anticipata rispetto alla data-simbolo del 12 perché le trasmissioni pirata hanno messo in moto indagini che stanno per arrivare al gruppo promotore.
Fin qui le analogie di volti e situazioni. Cui se ne aggiunge una di contenuto: nel 1997, in una manciata di ore, otto persone con mezzi artigianali riescono a mettere in allarme la politica italiana e le istituzioni molto più di quanto siano riusciti a fare i tanti movimenti autonomisti, Lega in testa. Nelle settimane successive si registra un autentico pellegrinaggio in Veneto di vertici delle istituzioni e leader dei partiti. Tutti di colpo si scoprono federalisti, ma della domenica: perfino il mondo cattolico, in una nota congiunta dei settimanali diocesani, chiede perentorio il federalismo, «altrimenti sul campanile ci saliremo noi». Sono rimasti tutti saldamente per terra, di federalismo non c’è l’ombra, e il rischio è che il copione adesso si ripeta. Lo stesso Carroccio è tagliato fuori, oggi come ieri: allora, Bossi ipotizzò addirittura un collegamento con i servizi segreti; adesso, Salvini si proclama paladino degli indipendentisti. Entrambi ignorano ciò che due degli arrestati di ieri, Faccia e Contin, scrivevano al momento della loro uscita dalla Liga, nel 1983, accusandola di “non difendere più i valori per cui era nata, ed essersi trasformata in un partito come tutti gli altri”. E nel 1997, dopo la vicenda di San Marco, il Veneto Serenissimo Governo bollava il Carroccio come “strumento neocoloniale nei confronti della Veneta Nazione; pertanto qualsiasi collaborazione con esso è da ritenersi contraria agli interessi del Veneto”.
Ma c’è un dato politico che sta dietro le vicende di ieri e di oggi, a dimostrazione di un problema di fondo che rimane irrisolto, e che investe i partiti tradizionali: l’incapacità veneta, da sempre, di ottenere un peso politico adeguato alla sua realtà. Nella prima Repubblica, una Dc regionale che era il maggior serbatoio di voti di quella nazionale, e che ha disposto a lungo della maggioranza assoluta, non ha saputo o voluto ottenere per il Veneto quello statuto speciale di cui disponevano le due regioni confinanti. E nella seconda, né il forzaleghismo né l’opposizione hanno saputo o voluto fare passi concreti verso l’autonomia: incluso il ricorso a quell’articolo 116 della Costituzione che dal 2001 dà alle Regioni la facoltà di ottenere dallo Stato funzioni aggiuntive. Ora tutti si stracciano le vesti perché Renzi vuole toglierla: ma cos’hanno fatto finora? È in questo vuoto che mettono radici le velleità di chi propone improbabili scenari di rottura. Finendo al “via” o “in prigione”: proprio come nel buon vecchio Monòpoli.
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