IL RACCONTO «Nipote, che è successo?»

I danni del maltempo, il territorio malato, i problemi della gente. La Tribuna di Treviso ha chiesto agli scrittori di raccontare l'alluvione.

Mio nonno indossava un cappotto pesante e scuro. Sotto, solo indumenti di lana. Nel corso delle stagioni, variava il numero, non la stoffa. D’estate solo la maglietta, fatta con i ferri dalla nonna. Appena la mettevi pizzicava da farti piangere e ci volevano settimane per domarla. D’inverno si aggiungeva un maglione che doveva essere addomesticato allo stesso modo. Mio nonno si appoggiava a un bastone. Portava un cappello a tesa, schiacciato nel mezzo. Dormiva sui materassi pieni di foglie di frumento. Era un uomo di campagna. Aveva paura dei cani: «Non si confessano tutte le domeniche» mi diceva. «Stai attento».

Anche all’acqua dovevo stare attento. Non so se l’acqua si confessasse tutte le domeniche o no, ma so che volavano certi scappellotti se partivo di corsa verso il pozzo, o verso un canale. Ci lavorava spesso, al canale. E con lui qualcuno del numero spropositato di figli che aveva. «Ci vuole rispetto» mi diceva, in dialetto. «La pioggia può fare disastri». Che male potrà fare la pioggia? mi chiedevo. Viene giù un po’ d’acqua, ci sono le pozzanghere, ci si salta dentro e non ci sono più. Non la capivo, quella paura.

Mio nonno è morto decenni fa, prima che il mondo diventasse troppo veloce e complicato. Eppure, continua a venirmi in mente ora che piove tanto, che piove sempre. Oggi mi sembra di vederlo in un punto qualsiasi della campagna martoriata, seduto sull’erba di un argine. Uno di quelli solcati da un sentiero di ghiaia che porta chissà dove e chissà da dove viene.

Sono adulto, ma lo fisso con lo stesso stupore di quand’ero bambino. Lui è vecchio come mi è sempre apparso. Indica con il bastone la distesa di acqua scura e apparentemente ferma che abbiamo davanti e che mette a dura prova la tenuta dell’argine. «Cosa sai dell’acqua?» mi chiede a bruciapelo. È proprio la sua voce, calma, lenta. «Cosa ti hanno spiegato alle scuole alte?». Sorrido. Le chiamava proprio così: le scuole alte. Era orgoglioso della sua terza elementare ottenuta quando già lavorava nei campi.

Inizio a sciorinare. «L’acqua è un bene prezioso, siamo composti per gran parte di acqua, l’acqua non va sprecata, senz’acqua si muore…».

«L’acqua è buona, insomma» mi interrompe. «In questi giorni, però, fa esondare i fiumi, travolge case, cose, animali e persone. Rovina il lavoro, mangia i campi». Si stringe nel cappotto ed estrae un toscanello dalla tasca. Riesce a riaccenderlo semplicemente infilandolo in bocca e aspirando; oggi come allora, a me sembra una magia. Tira due boccate lunghe, soddisfatte. Continua a fissare l’acqua. L’acqua che, senza alcun preavviso, si porta via la parte superiore dell’argine sul lato opposto del fiume e inizia a riversarsi sulla campagna. «Hai visto com’è venuto giù? Era crepato di sicuro». Nel tono una condanna. «Li pulite i fossi?» mi chiede. «Perché se no si intasano e tracimano. E da qua mi sembra di vedere» e indica poco lontano «che siano un po’ nude quelle colline. E i boschi? Li tenete bene?». «Nonno, non siamo più contadini» rispondo con sufficienza.

Lui si tocca la tempia con un dito. «È vero, lavorate tutti con la testa. Nessuno fa più niente con le mani. Solo che la terra non lo capisce mica. E c’è tanto di quel cemento. Cosa ve ne fate? Non vi sarete persuasi che il cemento fa la funzione delle radici?».

Come faccio a rispondere? Nel frattempo, l’acqua continua a tracimare. Sembra che qualcuno stia coprendo la campagna con un telone pesante. «L’acqua è un liquido. I liquidi non hanno una forma propria, occupano lo spazio del recipiente» butto lì.

«L’acqua è stupida, insomma» mi risponde. «Dove la metti, sta. Ma toglimi una curiosità». Io mi preparo, come mi preparavo molti anni prima quando iniziava così le sue domande impossibili sul perché Annibale fosse passato dalle Alpi con gli elefanti, o bisognasse sapere risolvere le equazioni con due incognite. «Sono ignorante, e tu sai tante cose» si giustificava. Io sapevo che in realtà si divertiva a provocarmi. «Dimmi pure» rispondo, compiendo quello che era il nostro rito.

Niente storia. Niente matematica. «Se non c’è il recipiente, se non la contieni, l’acqua cosa fa?». «Occupa lo spazio. Tutto lo spazio che trova». «Ecco» mi dice. E tende di nuovo il bastone a indicare davanti a sé. «La campagna verrà sommersa. Mi dispiace per i contadini che si sono spezzati la schiena, la terra è bassa. Mi dispiace per quelli che hanno sputato sangue per poter avere un tetto sopra la testa e adesso si trovano la casa allagata. Quella storia delle falde che risalgono, com’è?». «E chi lo sa, nonno. Piove tanto, e le falde… le falde…»” scuoto la testa. «Chi poteva prevederlo?». Aggrotta un sopracciglio come se la mia risposta non l’avesse convinto. «Toglimi un’altra curiosità» chiede.

Sbuffo. «Dimmi pure».

Il sigaro gli si è spento tra le labbra. «In quei libri che scrivi tu, chi sarebbe il colpevole di questo disastro, se l’acqua è buona come dici tu». «Oh, i buoni possono ammazzare. Anzi, i buoni che diventano cattivi sono feroci». «E cos’è che li fa diventare cattivi?». «Succede qualcosa. Qualcosa di brutto. Un trauma».

Resta in silenzio lunghi secondi. Riflette su qualcosa godendosi il sigaro. «E cos’è che ha trasformato l’acqua da buona a cattiva? Chi è stato?». Solo allora capisco dove mi voleva portare sin dall’inizio.

«Il colpevole non è mai quello che sembra» sussurro, faticando a trovare le parole. «Il lettore crede che gli indizi convergano su un personaggio, ma è un gioco di specchi». «Quindi l’acqua sembra colpevole, ma non lo è?». Annuisco. Mi punta addosso due occhi penetranti, implacabili. «E chi è il colpevole?».

Penso a “L’assassinio di Roger Ackroyd”. Dopo aver scagionato tutti gli altri personaggi, Poirot accusa la voce narrante. Il colpevole è chi racconta. Esattamente come in questo caso. Il colpevole è chi racconta. «Sono io» ammetto. Compio un ampio gesto con il braccio lungo l’orizzonte sempre più coperto d’acqua. «Tutto questo è colpa mia».

Il nonno si alza, appoggiandosi al bastone. Me lo ricordavo più alto, sarà che l’ho sempre guardato da sotto in su. «L’acqua non si è trasformata da buona a cattiva. L’acqua è sempre la stessa. Siete voi che vi siete dimenticati che la natura appena può riprende quello che è suo. Distrugge l’ordine che proviamo a darle».

«Entropia» sussurro. «Mai sentita quella parola lì, ma so che l’acqua è buona solo se la convinci, se te ne prendi cura. Altrimenti fa quello che vuole». Mi appoggia una mano sulla spalla. «Il colpevole sei tu, sono io. Siamo tutti colpevoli. Il colpevole è l’uomo, che è intelligente, mica quella stupida dell’acqua». Mi dà un buffetto come quand’ero piccolo. «Ora devo andare».

«Aspetta!» Lo imploro. «Alla fine di un giallo, il colpevole si redime o ha modo di espiare la colpa. Cosa posso, cosa possiamo fare?». Lui allarga le braccia. «E chi lo sa? Forse basta ricordarsi che il mondo non è nostro. Siamo di passaggio». Sospira. «E io lo so bene».

Si tocca la tesa del cappello, e passo dopo passo, scompare lungo la stradina di ghiaia.

 

 

 

*Giuliano Pasini è nato nel 1974 a Zocca, nel cuore dell’Appennino emiliano e abita a Treviso da 15 anni. Il suo romanzo d’esordio “Venti corpi nella neve”, che inaugura la serie del commissario Serra, è uscito nel 2012 per Fanucci-TimeCrime. Dopo essere stato un caso sul web ha ottenuto un grande successo di pubblico restando molte settimane nella classifica dei best seller e si è aggiudicato il Premio Massarosa. A ottobre 2013 è stato pubblicato in Germania, Austria e Svizzera. Ad aprile 2013 è uscito “Io sono lo straniero” (Mondadori), ambientato a Treviso, già vincitore dei Premi “Provincia in Giallo” e “Lomellina in Giallo”. Pasini ha contribuito, con il racconto “La storia di Primo e di Terzo”, all'antologia “Alzando da terra il sole” (Mondadori) il cui ricavato verrà devoluto alla ricostruzione della biblioteca di Mirandola, uno dei centri più colpiti dal sisma del maggio 2012.

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