Il Piave aggredito nel suo letto da vigneti ed escavazioni si sta riprendendo i suoi spazi

Scavato in profondità, sfruttato dalla viticoltura intensiva, non c’è debito di riconoscenza nei confronti del fiume sacro alla patria. Dopo più di 100 anni percorrere il medio corso del Piave significa scontrarsi con cave, vigneti, con un letto stravolto, e con tagli della vegetazione indiscriminati. Una mala gestio che Legambiente denuncia da tempo, ma che non sembra conoscere crisi.
L’ORO DI SASSI E PROSECCO
Dopo “il grande sacco” degli anni ’60 e ’70 quando il Piave diventò bacino per estrarre la materia prima necessaria alle infrastrutture di un Veneto in pieno sviluppo, oggi è in corso un nuovo stravolgimento del fiume. Legato questa volta ad un altro oro: le viti che ormai sono arrivate a cingere il Piave in un abbraccio che per Legambiente rischia di diventare mortale. L’ultimo vigneto è spuntato pochi mesi fa a Ponte di Piave. Poco lontano dalle “spiagge” frequentate da chi nel fine settimana preferisce le acque dolci del Piave a quelle saline del litorale. Proprio in corrispondenza della confluenza tra il Negrisia e il Piave questa primavera sono stati piantati ettari di viti. Eppure ci troviamo in mezzo a quelle che l’Europa definisce Zone a protezione speciale, che non è difficile intuire cosa significhi. Le viti e i prodotti utilizzati per il loro mantenimento sono compatibili? Legambiente è convinta che non sia così. Nel frattempo il Negrisia si è ridotto ad un rivolo, mentre gli anziani del paese ricordano almeno quattro mulini che davano da lavorare al paese.
I MULINI DEL NEGRISIA
Un canale oggi stretto tra due piccoli argini. Il Piave a valle invece ora scorre placido, con poca acqua. Un volto diverso rispetto a quello impetuoso che mostra durante le morbide e le piene, e che spaventa le popolazioni che ancora vivono in golena. È per loro e per i “rivieraschi” che la Regione vuole realizzare una cassa di espansione a Ciano del Montello, e pensa ad un secondo progetto a valle di Ponte di Piave. Dovrebbero servire a scongiurare gli allagamenti che da anni si ripetono a cadenza più o meno regolare. Per Legambiente però non è questa la strada: va ridato spazio al fiume, che oggi è più violento e pericoloso a causa dell’opera dell’uomo.
VITI A PERDITA D’OCCHIO
Risalendo il fiume verso Cimadolmo è impossibile non notare come in zona ormai l’economia sia diventata una sola. Percorrendo l’argine, le viti sono a perdita d’occhio. Raboso, Pinot grigio, anche Prosecco. Poco più a nord sulla Grave di Negrisia il letto corre molto più in basso; almeno cinque sei metri più giù. Il fiume ha scavato le sponde, proprio a valle e a monte di due escavazione storiche. L’acqua sta provando a riprendersi ciò che le è stato tolto. A rischiare di finire in acqua però questa volta è solo un vigneto che arriva proprio al limite dell’erosione. Se il Piave continuerà a mangiarsi le sponde, almeno un paio di filari sono destinati a finirci dentro. E con essi i pali, il ferro e tutti i prodotti utilizzati per il diserbo che già oggi ad ogni pioggia dilavano verso le acque del fiume.
L’USO DEI DISERBANTI
I segni dell’uso del diserbante sono evidenti, la vegetazione alla base delle viti è completamente bruciata. Proprio qui un gruppo di biker si blocca dopo aver seguito il letto del fiume da San Donà: per proseguire non c’è spazio. E’ necessario infilarsi a fianco ai filari e ricercare uno spazio libero per risalire. Ancora più a nord a Cimadolmo, vicino al ristorante la Botte, della cortina di vegetazione che sorgeva sull’argine non c’è più traccia. È stata tagliata. Centinaia di metri di arbusti e alberi spariti perché ritenuti dalla Regione pericolanti dopo la tempesta Vaia. Eppure lì di pericolanti non c’era proprio nulla, sono pronti a giurare coloro che frequentano e conoscono il fiume.
PROTESTE E MANIFESTAZIONI INUTILI
Interrogazioni consiliari, proteste e manifestazione non hanno sortito effetti. Della vegetazione ormai non c’è più traccia, se non quella spontanea che sta ricrescendo. Iniziano invece anche qui a intravedersi i primi segni dell’erosione delle sponde, prima tenute saldamente insieme dalle piante che vi erano cresciute. Nell’altro versante del Piave, poco più a sud, invece l’erosione torna profondissima, si intravedono alcune risorgive, e poi un muro alto metri scavato dal fiume. Oltre alle escavazioni temporanee, il Piave ospita diversi impianti di lavorazione della ghiaia. La Zanardo di San Michele è una delle imprese coinvolte nel Crif, il Consorzio di regimazione idraulica fiumi che comprende quasi tutti i cavatori della provincia, e che si occupa da anni pdi diversi interventi sul fiume. La Regione può appaltarli anche senza un piano redatto dal Genio Civile, ad una sola condizione, che si asportino al massimo 20mila metri cubi di ghiaia (c’è un emendamento per portare il limite a 80mila). A San Michele è ancora presente il cartello dell’ultimo intervento condotto dal Crif nel 2020, a pochi metri dalla sede della Zanardo: l’autorizzazione è per 19.997 metri cubi. Ma è solo l’ultimo in ordine di tempo, di decine di cantieri aperti negli anni in golena, che hanno saccheggiato la ghiaia del Piave. Che ora deve difendersi anche dalla viticoltura intensiva. —
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso