«Il federalismo è un bluff Lega Nord serva di Roma Bossi al guinzaglio di Silvio»
Franco Rocchetta, fondatore della Liga Veneta, commenta vent'anni di storia del Carroccio. E attacca il Senatur

Franco Rocchetta, 63 anni. A destra con la moglie Marilena Marin e Umberto Bossi. Sopra, l’abbraccio con Gian Paolo Gobbo
Un tradimento totale. Franco Rocchetta giudica così vent'anni di Lega Nord. Quell'8 febbraio 1991 lui c'era, a Pieve Emanuele (vicino Milano), al congresso cui la pubblicistica fa risalire la nascita del Carroccio, anche se Rocchetta la sposta indietro di 14 mesi, al 4 dicembre 1989, alla firma dell'atto costitutivo in quel di Bergamo. «Città scelta non a caso - puntualizza - ma per la sua lunga storia con la Serenissima». Fatto sta, che 20 anni dopo, il fondatore della Liga veneta, eletto presidente federale della Lega Nord nel 1991 e nel 1994, bolla il suo ex partito come «servo di Roma e dello Stato di Milano», il segretario federale Bossi come lo ritrae Giannelli nelle vignette sul Corriere («al guinzaglio di Berlusconi, fin dall'inizio») e ne ha persino per l'amico Gobbo: «Mai visti a Treviso tanti tricolori e tempietti nazionalisti come oggi, neanche durante il Regno d'Italia e il fascismo».
Potrebbero dirle che lei parla da uomo ferito, che proprio in queste ore la Lega è a un passo dal coronamento del sogno federalista...
Il federalismo è un mantra di cui si riempiono la bocca, in realtà questo cosiddetto federalismo municipale, farraginoso e macchinoso, è una beffa.
Però è la stessa Lega che, da Calderoli a Zaia e Muraro, si dissocia dalle celebrazioni del 150º dell'Unità d'Italia. Questo almeno le farà piacere.
Lo dicono a parole ma nei fatti puntellano lo staterello italiano, lo stato della mafia e della camorra. Anzi, sa che le dico? Che se è vero che hanno fatto sparire i libri di Saviano dalle biblioteche, è una vergogna. Anche se Saviano non mi entusiasma. Ma io li ho fatti i comizi, a Napoli, ai tempi in cui predicavamo e scrivevamo fhora i mafhiuxi e i camuristi dal Veneto.
Ce l'avevate anche con i terroni.
Lo smentisco. Il 7 aprile 1979, all'hotel Due Torri a Verona, sono io che convoco tutti i movimenti autonomisti d'Italia, dai tirolesi ai siciliani e ai sardi.
E le scritte «Forza Etna» sui cavalcavia?
Provocazioni. Che abbiamo ripetutamente denunciato.
Mi deve spiegare una cosa: come mai voi veneti, che eravate stati i precursori, vi siete fatti fregare dai lumbard?
È una storia lunga. Se proprio devo sintetizzare, dico che la lacerazione dell'autunno 1983, con l'assemblea ai Trecento, qui a Treviso, fu il frutto di un'infiltrazione della Dc nelle nostre file, la Dc che ci voleva morti. Questo lo scrive anche Giorgio Galli nella sua storia di 50 anni di Democrazia cristiana.
E fu così che Bossi prese il sopravvento.
Nel 1987 il complotto si ripete e non riusciamo a confermarci in Parlamento. La Lega lombarda conquista due seggi, uno dei quali per Bossi. Dal quel momento lui ha paginate sui giornali ogni volta che apre bocca in piazza Duomo a Milano. E i telegiornali di Canale 5.
Allude a un appoggio della Finivest?
Ha presente le vignette di Giannelli? Bossi al guinzaglio di Berlusconi. Poi, fra l'87 e l'89, lui sparisce per un mese e quando torna è un altro. Da scialbo che era, si trasforma in un grande comunicatore. La scuola Publitalia.
Però Bossi sparava contro Dc e Psi, Berlusconi stava con Craxi...
Invece le dico che Bossi ci chiese di negare l'autorizzazione a procedere contro Craxi, in Parlamento.
Ma poi come votò il gruppo?
Grazie al voto segreto, trionfò il doppio gioco.
A quando risale il suo primo incontro con Bossi?
Ottobre 1981. A Brescia, con un gruppo di federalisti mantovani e veronesi, eravamo andati a incontrare un editore della Brianza, volevamo fare un giornale dei movimenti autonomisti del Nord. C'era una contessina milanese, austriacante, e al suo fianco, cavalier servente, questo giovane nostalgico di Napoleone con tanti foglietti in cui declinava le parole-chiave del dialetto lombardo.
Quale fu poi la ragione della rottura fra voi due?
Fra le 20 ragioni, ne indico un paio. Nel '92 Bossi ci fa comprare la sede di via Bellerio. Quattordici miliardi. Mistero assoluto sulla provevienza di quei soldi. C'è un libro, "Unto del Signore", in cui dicono che il finanziamento lo portò Fiorani. E poi era il trionfo della sua logica anti-federalista, centralista, feudale. Con tanto di simbologia della spada. Oggi siamo al tribale, con l'investitura del figlio Renzo. Ho i miei dubbi che Bossi sia mai stato autenticamente federalista. Lui sogna lo Stato di Milano. Qualche anno dopo, scoprimmo che lui e Speroni erano stati candidati nella Lista per Trieste (il Melone, ndr) nel 1983, formazione che noi avevamo respinto perché antislovena, dichiaratamente antifederalista e ipernazionalista. Quanto a Maroni, altro che fondatore: io lo vidi per la prima volta a Roma, alla riunione degli eletti nel '92. E sa come fu scelto quale capogruppo?
Come?
Bossi ci chiese di dichiarare il Q.I (quoziente intellettivo, ndr) di ognuno di noi. C'è chi bluffò, due-tre forse lo sapevano davvero. Morale: «Roberto ce l'ha più alto di tutti», taglio cortò. E lo impose.
E di Gobbo cosa mi dice?
Nel 2009 ci siamo rivisti, dopo 15 anni. In quell'occasione mi ha chiamato pubblicamente «maestro»...
Gobbo è la Liga che ha vinto. Quale il suo segreto?
Difficile volergli male: dice sempre sì a tutti. L'ha dichiarato lui all'Infedele: «Noi facciamo l'amministrazione del partito, Bossi le scelte politiche». Ecco, se uno dice così, vuol dire che ha abdicato.
Lei quando l'ha conosciuto Gobbo?
Nel 1980. Cercava un contatto. Vide una serie di manifesti appiccicati di fresco, lungo la strada - mi pare fosse da Treviso a Castelfranco - e li seguì. Fu così che mi trovò, che li stavo affiggendo, spostandomi a bordo di una Millecento blu.
Chi c'era nel nucleo storico della Liga trevigiana?
Operai, ferrovieri che incontravamo la notte, girando per attaccare manifesti o scrivere sui muri. Fra gli altri, sperando di non fare torto a nessuno, cito Antonia Lorenzet, Maria Malgaretto, Marilena Marin, Tarcisio Zanchetta, Loris Buttignol, Giovanni Cescon.
Oggi per chi vota uno come lei, Rocchetta?
Se c'è un candidato che conosco e stimo, anche nella Lega, il voto glielo do, alle amministrative. Ma alle politiche e alle europee non trovo nessuno che mi va a genio.
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