«Futuro senza fiducia e pochi sostegni attivi Così le coppie giovani rinunciano ai figli»
L’intervista
Natalità e fecondità vanno a braccetto. Il problema non sono solo le culle vuote, ma le ragioni storiche, sociali e culturali che spingono le coppie a fare meno figli, o a rinunciare al progetto di famiglia. «Il calo dei nati dipende da quanti bambini concepiscono le coppie ma anche da quanti potenziali genitori ci sono in quel momento nel territorio considerato. Il numero dei bambini veneti e dunque trevigiani è frutto di una diminuzione della fecondità che ha iniziato a vedersi negli anni Novanta, stratificandosi nel tempo fino ad oggi».
Analizza la questione da più angolature la professoressa Letizia Mencarini, professore ordinario di demografia all’università Bocconi di Milano, tra gli esperti di Population Europe, il network europeo dei centri di ricerca sulla popolazione, nonché coautrice di un libro dal titolo eloquente, “Genitori cercasi. L’Italia nella trappola demografica” edito Bocconi.
Ecco appunto, dove sono i genitori?
«La crisi demografica ha colpito prima e più duramente il Nord Italia, rispetto al Sud, già trent’anni fa nel Settentrione si è cominciato a fare meno figli e in età più avanzata. Si è dunque assottigliata la fetta dei potenziali genitori. Quel che differisce tra l’Italia e il resto d’Europa è che negli altri Paesi il gap è stato pienamente recuperato con politiche di sostegno alla genitorialità per cui le coppie hanno continuando a fare lo stesso numero di figli degli anni Sessanta sebbene in età più avanzata rispetto a prima».
Quanto pesa la fiducia nel futuro?
«Tantissimo. Sta diventando una delle spiegazioni più importanti per capire i diversi comportamenti tra Paesi. Dove c’è maggiore fiducia in istituzioni e comunità, dove la società è family friendly e offre servizi, aiuti economici e ambienti a misura di famiglia, ecco che si fanno più figli».
Che effetto ha avuto la pandemia?
«Qualcuno in chiave ottimistica e folcloristica ha ipotizzato il Covid baby boom, non è andata così. I giovani hanno avuto paura del futuro e il clima sociale pesante ha abbassato in maniera rilevante i concepimenti. Sono ripresi un po’ nell’estate con l’allentamento dell’emergenza sanitaria e sono tornati a riabbassarsi con la quarta ondata. Questo è un indicatore importante, significa che le coppie giovani non si sono sentite tutelate, a causa di una difficoltà economica reale, ma in taluni casi anche per una incertezza più percepita che reale».
Il lavoro rappresenta ancora un deterrente alla maternità?
«Questo luogo comune va sfatato, era vero in passato, ora non più. In tutta Europa, Italia compresa, laddove le donne lavorano di più fanno anche più figli. In questo momento storico, fare dei figli con un solo stipendio è un privilegio di pochi, la classe media ha bisogno di due stipendi per mettere su una famiglia».
In che modo le disparità di genere, sia nel reddito sia nella qualità del lavoro, influenzano la demografia?
«Le donne restano le più penalizzate dal mercato del lavoro in termini di produzione e remunerazione. Esiste una correlazione positiva tra lavoro femminile e fecondità, tuttavia mancano i sostegni. Con la pandemia le donne hanno perso ore di lavoro, molte sono state relegate al ruolo di cura».
E i padri dove sono?
«Gli italiani sono più restii a cambiare il loro comportamento in famiglia rispetto ai padri di altre zone d’Europa, non c’è stata in Italia la “femminilizzazione” dei comportamenti maschili verso il ruolo della cura dei figli, al contrario le donne hanno cercato la parità mascolinizzando i loro comportamenti».
Che futuro ci attende?
«Piuttosto grigio, come i capelli di una popolazione sempre più anziana. Senza correttivi aumenterà lo squilibrio sociale con problemi di sostenibilità economica ma anche di giustizia tra le generazioni. Sappiamo a cosa andiamo incontro, bisogna essere lungimiranti nelle scelte di oggi, non basta l’assegno unico. Il problema va attaccato da più parti, come ha fatto la Francia, con sgravi fiscali, servizi, sostegno al reddito». —
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