Dalle parole di Ervas il film di Salvatores, a Venezia arriva “Tutto il mio folle amore”
Intervista a Fulvio Ervas, l’autore di “Se ti abbraccio non avere paura” da cui Salvatores ha tratto il film che sarà al Lido il 6 settembre

TREVISO. Il film ancora non lo ha visto neppure lui, solo qualche frammento, ma Fulvio Ervas è fiducioso che Gabriele Salvatores abbia fatto un buon lavoro, portando sullo schermo il suo libro, “Se ti abbraccio non avere paura”, diventato ora per il cinema “Tutto il mio folle amore”, che sarà Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. La proiezione sarà venerdì 6 settembre, alle 22 in Sala Grande. L’uscita nelle sale il 24 ottobre.
Preoccupato di quel che è potuto diventare il libro una volta trasformato in film?
«Assolutamente no. Quando si dice che un film non rispetta un libro si dice una tautologia, perché è impossibile che cambiando linguaggio ci sia una aderenza piena e adeguata a quello che era prima. Del resto è la stessa cosa che è accaduta a me. Franco Antonello mi ha raccontato la storia del suo viaggio in moto col figlio autistico, Andrea, io l’ho ascoltata e poi l’ho raccontata come la sentivo io. Salvatores a sua volta l’ha letta, l’ha trasformata e l’ha raccontata come la sentiva lui. Sono sicuro che avrà fatto un bellissimo lavoro».

C’è stata collaborazione?
«Non sono stato sul set, anche se mi avevano invitato. Ho letto la sceneggiatura, che prende in considerazione tutte le questioni fondamentali del libro, anche se necessariamente vi costruisce intorno degli accadimenti che nel libro non ci sono. Era inevitabile, perché il libro è fatto di pensieri, ricordi, ha pochissimi dialoghi e per un film sarebbe impossibile mantenere la stessa struttura».
Sarete a Venezia per la prima?
«Certamente, il 6 settembre sarò in Sala Grande assieme a Franco Antonello e ad Andrea. Salvatores è stato abbottonatissimo e sono curioso, quindi, di vedere come lui ha letto la storia. Mi sembra bello che si sia costruita una vera e propria rete alla cui origine c’è Andrea, e poi Franco che ha raccontato di Andrea, io che ho raccontato quello che mi aveva raccontato Franco e ora Salvatores che racconta quello che ho raccontato io. A Venezia saremo tutti lì».

Da quel che ha visto, la scelta degli attori rispetta i personaggi reali?
«Ovviamente Salvatores ha scelto persone di cui si fidava, che non potevano essere uguali ai personaggi. Anche il mio Franco e il mio Andrea sono diversi da quelli reali. Santamaria, Abatantuono, Valeria Golino sono tutti grandi professionisti. Franco e Andrea Antonello sono stati sul set e credo che si sia attivata quella empatia che è necessaria per raccontare una storia come questa. Io stesso ho scelto di scriverla per l’empatia che ho provato per Franco quando me l’ha raccontata. Io nella mia professione di insegnante stringo le mani a molti genitori: lui è un genitore che veramente ha fatto qualcosa per il figlio e non è così frequente. Da quel poco che ho visto credo che il ragazzo che interpreta Andrea, Giulio Pranno, sia stato scelto molto bene. Ha la stessa eleganza naturale di Andrea quando si muove. Poi certo lui deve “recitare” la parte di un ragazzo autistico e questo è del tutto diverso».
C’è corrispondenza tra le immagini visive che si era fatto scrivendo e quelle che ha potuto intravedere del film?
«Per scrivere ho utilizzato le centinaia di foto che Franco Antonello aveva fatto del suo viaggio. Ce ne sono due che sono state fondamentali e mi sembra di averle ritrovate nel film. La prima è l’immagine della libertà di padre e figlio sulla moto, che è anche la locandina del film. La seconda è un’immagine di Andrea che si muove con grande eleganza tra le tombe di un cimitero americano con le braccia aperte, come fosse un airone».
Torniamo al libro. È stato il primo a raccontare la malattia, la disabilità. C’era la consapevolezza che avrebbe avuto grande successo e avrebbe aperto una strada?
«No, era un territorio nuovo e non sapevo neppure se ne sarei stato capace. Credo che chiunque svolga un’attività di sensibilizzazione sulla malattia, sulla diversità, su altri linguaggi e altri corpi faccia oggi qualcosa di fondamentale, destinato a rimanere nel tempo. E credo si debba riflettere sul fatto che molte di queste narrazioni, anche molto belle, vengano da qui, dal Veneto, una regione che ha tante cose brutte, ma anche tante cose belle».
E c’è una spiegazione?
«Credo di sì. Intanto il fatto che ci sia una buona sanità e un buon sostegno sociale aiuta a parlare di queste cose. Chi affoga non ha neppure la possibilità di parlare. Invece il fatto che qui ci sia un sostegno, ci sia una società attenta al volontariato ha reso molte famiglie capaci di battersi per i propri figli e determinate a condividere e socializzare la propria realtà. Come mi ha detto Franco Antonello, cito approssimativamente: “La vita mi ha dato un due di picche, ma anche con un due di picche si può giocare a carte”».
Alla Mostra del Cinema ci sono quattro film tratti da lavori di scrittori veneti: Bugaro, Bettin, Mazzariol, lei. Questo segnala una capacità di raccontare la contemporaneità?
«Se fosse così sarebbe una grande notizia, vorrebbe dire che, oltre a essere un gigante economico, il Veneto comincia a offrire con frequenza maggiore sguardi che sono riconosciuti in sintonia con le trasformazioni sociali. Del resto credo che il dato dica qualcosa statisticamente, visto che è improbabile che i selezionatori siano venetisti convinti. Forse gli scrittori veneti in questo momento sono capaci di salire su capanni in mezzo alle barene e da lì guardano da un po’ più in alto quello che si muove in una regione tutt’altro che ferma e che anticipa quel che poi accade anche altrove».
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