Così morivano i bambini nel campo-lager di Monigo

di Francesca Meneghetti*
Il campo di concentramento di Treviso si trovava a Monigo, a circa 3 km dal centro storico, entro la caserma “Cadorin”. Quindi gli alloggi dei prigionieri erano cinque delle sei casermette in muratura predisposte (una era riservata ai soldati di guardia).
il campo entrò in funzione il 1^luglio 1942 per richiudere civili sloveni e croati in base alla Circolare 3 C del generale Mario Roatta, che intendeva ricorrere a rastrellamenti indiscriminati per reprimere la resistenza sviluppatasi dopo l’occupazione italiana di territori ex jugoslavi avvenuta nell’aprile del 1942. Fino a settembre ebbe una popolazione slovena maschile, con forte componente studentesca e intellettuale. In autunno cominciarono ad arrivare famiglie anche croate: donne, anche incinte, bambini, vecchi ottuagenari, in molti casi provenienti da Arbe (Rab), che poteva essere equiparato a un campo di sterminio. La caserma diventò sovraffollata. Complice il freddo, si diffusero malattie e crebbe la mortalità, specie nei primi mesi del 1943.
Secondo la tradizione, il campo rimase attivo fino all'annuncio dell'armistizio tra l'Italia e gli Alleati. Sugli eventi dei giorni successivi all’8 settembre 1943 ci sono testimonianze non collimanti: lo storico sloveno Ferenc afferma che dirigenti del Fronte di Liberazione sloveno presero in mano la direzione del campo, organizzando , per organizzare il ritorno in patria a scaglioni. Un soldato triestino presente nel campo, Ivan Gulic, ha invece riferito di una situazione caotica di fuga, con assalto ai treni. Secondo documenti acquisiti da poco l’esercito tedesco assunse il comando del campo, dove sarebbero stati poi internati altri individui, forse anche ebrei, ma dove rimasero anche spontaneamente 38 slavi, alcuni dei quali lavoravano per la Todt. Una relazione del questore di Treviso del 23 marzo 1956 posticipa la chiusura del campo al febbraio 1944, in piena Repubblica Sociale Italiana. Un anno dopo, finita la guerra e partiti i tedeschi, la caserma si trasformò in campo per profughi (Displaced Persons), gestito dal Governo Militare alleato, e vi transitarono circa 20.000 persone da maggio ad agosto 1945.
Il prigioniero, appena giunto nel campo, veniva sottoposto a "bonifica" (cioè a una doccia con simultanea disinfestazione degli abiti, che gli venivano poi restituiti, in quanto non era prevista una divisa, a differenza dei lager tedeschi). Poi gli veniva fornito il corredo: due coperte, un cucchiaio, una gavetta e un po’ di paglia. Per dormire, disponeva di un giaciglio su letti a castello. Il campo non era di lavoro, anche se alcuni disegni del campo composti da un artista sloveno internato, Vladimir Lamut, rappresentano attività di edilizia o manutenzione. I prigionieri erano sottoposti a una rigida disciplina, che prevedeva frequenti ispezioni, anche per evitare evasioni, che pure vi furono. Non risulta che fosse praticata sistematicamente la violenza contro i prigionieri, ma una testimonianza riferisce che Alfredo Anceschi, comandante del campo, per punizione o monito, avesse tenuta una donna legata a un . palo per un'intera giornata.
Le condizioni materiali di vita erano molto pesanti, per quanto non si trattasse di un lager, volto all’annientamento fisico delle persone: le camerate non erano riscaldate e la dieta prevedeva, sulla carta, solo 911 calorie giornaliere per i repressivi. All'atto pratico, all'internato arrivava meno di quanto risultava ufficialmente a causa di imboscamenti da parte dei militari, tentati di arricchirsi con la borsa nera. In ogni caso la dieta era molto sbilanciata, presentando carenze vistose di grassi, proteine, vitamine; inoltre i finanziamenti stanziati per sfamare tutti i prigionieri slavi dei campi fascisti avevano visto perdere il loro valore reale a causa dell'alta inflazione del secondo semestre del ’42 e del primo del ‘43: per cui le somme preventivate all'inizio (primo semestre del 1942) nel giro di pochi mesi non erano più sufficienti a garantire l'acquisto di quello che era stato stabilito. Chi poteva contare su aiuti esterni (famiglie o reti di solidarietà) poteva reggere, chi non aveva aiuti, o giungeva nel campo già pesantemente debilitato, come le donne e i bambini provenienti da Arbe , furono condannati alla morte per stenti e malattie.
Circa 200 furono le vittime del campo (ci sono tre elenchi a riguardo, che contano rispettivamente 187, 192 e 225). A Treviso morirono 53 bambini sotto i dieci anni; il tasso di mortalità infantile (calcolato sui 45 nati nel campo) fu quasi del 300 per mille, includendo 2 bambini nati nel campo di Monigo e poi morti nel campo di Gonars. Il professor Menemio Bortolozzi di Treviso, anatomopatologo, autore di molte autopsie, documentò come la fame fosse una delle prime cause di morte, accanto alla tubercolosi e ad altre malattie favorite dal freddo e dal sovraffollamento. "Non erano cadaveri normali", avrebbe affermato il medico, "sembravano delle mummie o dei corpi riesumati". Il fegato di una persona pesava un terzo del normale.
Per avere un quadro completo della situazione degli internati, accanto alle condizioni materiali, andrebbero ricordate quelle “spirituali”, caratterizzate dell’inedia, della depressione, della nostalgia, della solitudine, ma anche dalla reattività dei prigionieri sloveni, che organizzano un canto coro, tornei di scacchi, e la redazione di un giornale del campo (in numero unico, pare), Novice izza žice.
Infine va detto che al di fuori de campo si creò una rete di solidarietà che partiva dalla parrocchia di Monigo, dove si prodigava don Antonio Serafin, con l’aiuto di famiglie contadine vicine al campo, per arrivare all’ospedale, dove almeno un medico, Alfonso Cino Boccazzi, si espose alle ire delle autorità militari per aver denunciato le condizioni degli internati. Anche il padre francescano Placido Cortese, che sarebbe stato poi catturato a Padova dai nazisti, torturato e ucciso a Trieste, visitò il campo, rimanendo colpito dalla misera condizione dei bambini. Un ruolo importante fu svolto poi da Breda Rus, figlia di un noto dottor sloveno, Mavricij Rus: Breda entrava nel campo, con i panni del Rdeci križì (Croce Rossa Italiana, sezione di Lubiana) portando lettere e medicinali, e manteneva contatti con la parrocchia di Monigo e l’ospedale, facendo base a Villa Pace, dove viveva assieme alla zia Minka Stare e al ricchissimo zio acquisito, l’ingegnere Milan Lenarcic, che forniva i mezzi economici per aiutare gli internati.
*Autrice del libro
«Di là del muro. Il campo di concentramento di Treviso»
edito da istresco
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso