Bancarotta milionaria e fuga in Messico

RESANA. Secondo la pubblica accusa, la sua responsabilità penale è piena. Per questa ragione il pm padovano Luisa Rossi ha chiesto la condanna a 5 anni di carcere per Aurelio Favaro, 55enne originario di Resana, attualmente residente in Messico nella località Rincon de Careyes, già amministratore di Up Store srl e di Up City srl, le società con le quali gestiva il negozio rivenditore ufficiale dei prodotti Apple con sede a Padova. Up Store è fallita l’11 dicembre 2013 non senza conseguenze per il titolare. Favaro si ritrova accusato (nella veste di amministratore di fatto e di diritto di Up Store) di bancarotta sia fraudolenta che documentale per aver distratto (anche precedentemente al crac) una serie di beni della società che risultavano pignorati dal 21 maggio 2013 (fra questi un lungo elenco di pc Mac) e anche di incassi e merce destinata alla vendita tanto da provocare un passivo fallimentare per 1.189.470 euro; deve pure rispondere di bancarotta documentale per aver tenuto libri e scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento affari. Favaro è pure imputato nella veste di amministratore di fatto e di diritto di Up City srl (fallita il 14 febbraio 2014) di bancarotta documentale aggravata e di truffa sempre aggravata in quanto avrebbe provocato un danno patrimoniale rilevante. Stando all’esito dell’inchiesta, l’imprenditrice S.N. sarebbe stata convinta a investire nella società Melastore srl e Up Store srl ben 225 mila euro. L’obiettivo? Sviluppare le attività commerciali delle due ditte tramite la vendita di prodotti del marchio Apple. Peccato che, versati i soldi, il progetto non sarebbe mai stato concretizzato e il danaro finito altrove. Il pm Rossi ne è convinta: il quadro emerso nel corso del processo confermerebbe la responsabilità penale di Favaro. Peraltro nell’estate 2013, alcuni mesi prima del fallimento di Up Store srl, il titolare del negozio – un Apple Premium Reseller, un rivenditore autorizzato da Apple, ma quanto a dimensioni (di locale e fornitura) non paragonabile a un Apple Store in piena regola – era finito alla ribalta della cronaca. Da mesi non pagava i dipendenti e dal gennaio precedente nemmeno versava i contributi con il risultato che in gran parte avevano già abbandonato il posto di lavoro. Risultavano creditori molti fornitori, tre dei quali avevano chiesto il pignoramento del 90 per cento della merce rimasta. La parola ora passa alla difesa e sentenza l’8 giugno.
Cristina Genesin
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