21 Investimenti, Benetton: «In gestione 1,5 miliardi farò solo belle imprese»

MASER. La parola che usa più spesso è «cambiamento». In alternativa, «discontinuità». Le citazioni sono di Michael Porter, economista relatore del suo master ad Harvard. Alessandro Benetton, fondatore di 21 Investimenti, si gode la rocca e i cento orizzonti dalle vetrate panoramiche dei nuovi uffici di Maser, e pensa che sì, quando Unindustria parla di recupero del territorio e dei capannoni si riferisce proprio a interventi come questo, con il restyling della sede che mette al primo posto la convivenza con le colline, il paesaggio, il «bello» (altro termine chiave nel Benetton-pensiero). In mezz’ora di intervista il fondatore di 21 Investimenti spazia dal paesaggio alla finanza, dal food al fashion, ma parte da qui, dall’ex «cadavere eccellente», definizione dell’architetto Domenico Luciani che ha disegnato la rinascita della vecchia sede.
Un intervento che sposa l’appello di Unindustria Treviso e Confindustria Padova sul riutilizzo delle vecchie strutture. Abbiamo un territorio caratterizzato, nel recente passato, dai (brutti) capannoni, molti però sono ancora qui. Lei come vede questo tema?
«Oggi la domanda da porsi è: che mondo avremo fra trent’anni? Ora i cicli dell’impresa durano 3-4 anni, si vive per cambiare. E quando trovi le risposte sono già cambiate le domande. Pensando a tutto questo, la sostenibilità è “il” tema: non significa “non tocchiamo niente” ma reinterpretiamo, e le cose che facciamo, facciamole pensando a ciò di cui potremmo aver bisogno fra trent’anni. Per i mondiali di sci a Cortina, per esempio, si possono tagliare delle piante, se queste piante consentono all’uomo di arrivare in certe zone. Questo spazio di Maser chissà, potrebbe diventare un fitness center fra tanti anni. Io intanto ho fatto una cosa bella».

Sarebbe ipotizzabile, nel futuro a cui pensa, una Academy per ogni impresa? Una palestra in cui far crescere i futuri dipendenti?
«Per me questo è fondamentale. Noi abbiamo tantissime buone aziende e giovani molto capaci. Ma questi vanno via. Manca quindi un anello di congiunzione, perché la qualità dei due gruppi non è in discussione. Noi ci siamo sempre lamentati pensando che l’anello mancante fosse il mondo della formazione, troppo lontano da quello del lavoro. Ma non è tutto, anzi. I giovani sono per definizione il termometro del cambiamento. In questo senso, vedo doveroso per affrontare i prossimi cambiamenti una congiunzione sempre più forte tra formazione e industria».
Però c’è il problema di come, poi, i giovani vengono trattati in fabbrica, in quanto a contratti e prospettive.
«Sì, servirebbe un timbro di qualità sulle aziende. Il giovane però deve essere invogliato ad avere un rapporto col mondo del lavoro il prima possibile. Viviamo una fase di grandi evoluzioni ed è difficile disciplinare questi rapporti, che devono essere il massimo della garanzia per un giovane. La soluzione? Un dialogo che parte prima. Andare a vedere una fabbrica o un punto vendita a 15-16 anni, far diventare quella conoscenza parte dei suoi interessi. Così l’avvicinamento diventa automatico».

I giovani, a parità di condizioni, preferiscono l’estero: le nostre imprese hanno perso appeal?
«In effetti c’è bisogno di forte autocritica da questo punto di vista. Dobbiamo convincere tutti che è con nuove iniziative, e soprattutto senza individualismo, che miglioreremo le cose. La fase evolutiva dell’azienda è come la crescita di un bambino, con fasi di apprendimento diverse. Ma noi questi passaggi nelle varie fasi facciamo fatica a farli: siamo un grandissimo territorio fatto di piccole imprese. È un problema di regole e di leggi, sì, ma dovremmo anche riconoscere che non sappiamo gestire le organizzazioni quando diventano molto larghe e non sono più legate a un prodotto, ma a una cultura. L’imprenditore italiano è coraggioso ma a volte è colpito da forme di individualismo: siamo quelli del caffè, quelli della pizza, ma le catene le fanno gli altri. Ripeto, il problema è di cultura».
Veniamo a 21 Investimenti: come si muoverà nel prossimo futuro?
«Abbiamo due grandi filoni di sviluppo. Il primo è continuare sul solco della qualità: non fare tante cose, ma cose belle. Poi immagino più integrazione tra noi e i nostri “fratelli” francesi e polacchi, con – a un certo punto – un fondo comune. Tutto assieme abbiamo oggi in gestione 1, 5 miliardi di fondi. Poi collaboriamo con un fondo dedicato alla piccolissima impresa con investimenti sotto i 30 milioni di euro, che pensiamo di accorpare in 21 Investimenti».
In quali settori state investendo?
«Food e fashion. In Veneto abbiamo la Philippe Model, francese ma made in Riviera del Brenta. Prime aperture in Corea, ora apriremo anche in Giappone, Medio Oriente, Libano, Dubai, Cina. Saranno dei monomarca. Abbiamo aperto a Milano e lo faremo anche a Parigi. E poi abbiamo anche la Gianni Chiarini».
Ma le piccole aziende concepiscono e digeriscono l’importanza crescente della finanza?
«Alcune barriere devono ancora essere superate, ma oggi da parte dell’imprenditore c’è più consapevolezza. Un partner finanziario può anche essere sbagliato, ma ci siamo resi conto che gli altri danno la possibilità di guardare più lontano rispetto a dove si voleva andare prima».
Su chi scommette come prossimo (fortunato) caso industriale, tra quelli di 21?
«C’è un caso importante, la Nadella. Fanno le sfere di media precisione per i conveyor belt degli aeroporti. Da qualche anno ce l’abbiamo noi e ora potrebbe fare un ulteriore salto di qualità con un altro partner».
Fondazione Nordest: le hanno chiesto di occuparsene?
«Ho rifiutato tre volte prima di accettare la presidenza di Cortina 2021. Mi piace il mio mestiere e sono molto impegnato. Questo ruolo delle Fondazioni nel fare cultura è importante nelle società civili, e non va perduto, ma sono già troppo occupato».
Ma riesce a seguire tutto in prima persona?
«Se ti diverti, sei curioso e hai passione, già sei avvantaggiato. Tante cose sono più simili di quello che sembra, il comportamento in un’azienda del proprietario o di un manager, le paure al cambiamento di un dirigente, gli occhi di un giovane: l’uomo è sempre al centro. Prendete la rete dei cinema The Space: abbiamo comprato da Warner e Berlusconi, che non sono due sprovveduti, e siamo riusciti ad applicare un paradigma che loro non erano riusciti a intravedere, facendo lievitare i conti. Cosa vuol dire, quindi, specialista del settore?».
Riproduzione riservata © Tribuna di Treviso