Basket, la lezione di Rose all’Eurocamp 2025
Il più giovane mvp della Nba ha incantato i campers: «Questo sport non è individualità, al primo posto c’è il gruppo»

«Il vero amore per il gioco trascende tutto, dai soldi alla fama passando sopra ogni altra stupidaggine. C’è il professionismo che è dedizione e sacrificio, e c’è tutto il resto». Non ha usato mezzi termini Bill Bayno, direttore dell’Adidas Eurocamp, per introdurre ieri mattina l’ennesima guest star dell’edizione 2025 della kermesse cestistica giovanile.
Davanti ai campers è apparso Derrick Rose, leggendario play-guardia che fu prima scelta del Draft 2008 (Chicago Bulls) e che ha dimostrato in carriera una stoica volontà di resilienza. Più forte di qualunque infortunio, Rose, il più giovane mvp nella storia della Nba, è tornato più volte sul parquet ritirandosi soltanto un anno fa dopo un’ultima parentesi con i Memphis Grizzlies.
«Mi sono sempre chiesto cosa si debba fare, se essere un duro o giocare duro – si è presentato sul parquet della Ghirada – La verità è che non si finisce mai di imparare. Occorre restare concentrati sui propri obiettivi, non arrendersi mai. E guai a sottovalutare il ruolo della scuola e l’importanza dell’istruzione. Io sono stato fortunato, nel mio unico anno al college ho avuto degli allenatori eccezionali (John Calipari e Rod Strickland a Memphis, ndr) che mi hanno fatto capire molte cose». Affascinati da Rose, i campers lo hanno ascoltato dall’inizio alla fine cogliendo ogni sfumatura, ogni aneddoto.
«Quando arrivai al mio primo training camp, nel 2008, c’erano sei giocatori nel mio stesso ruolo ai Bulls. Pensai che fosse una sana competizione, in realtà dovevo prima di tutto mostrare rispetto ai veterani, calarmi in una nuova realtà senza presunzioni. Ero la prima scelta ma questo non mi garantiva nulla. Il medesimo concetto vale anche oggi, per chiunque aspiri a entrare nella NBA».
A chi gli chiedeva dell’evoluzione del gioco verso un maggiore impatto delle guardie, Rose ha risposto in maniera chiara: «Io ho sempre giocato da play o da guardia, non mi sono mai preoccupato della concorrenza perché al primo posto mettevo il risultato del gruppo. Quando arrivava una nuova guardia non mi chiedevo se potesse essere una insidia per il mio posto, semmai mi domandavo come integrare una risorsa ulteriore nella squadra, come utilizzare quella novità in senso positivo. Queste sono gli argomenti davvero importanti, ogni giorno: migliorare assieme ai compagni, per noi stessi e per il team. Il basket non è individualità».
Inevitabile la domanda sullo stato di forma. Per un giocatore come Rose che ha subito numerosi infortuni e che più volte è stato costretto a fermarsi, a dubitare di poter tornare non solo alla condizione precedente ma persino a giocare, un quesito del genere è una sfida intima ulteriore: «In tutta la mia carriera mi sono concentrato solo su quel che dovevo fare, su quanto mi dovessi allenare, sulle richieste del coaching staff, sulle necessità di squadra. Non ho mai pensato al denaro come obiettivo, alle trade in funzione dei soldi: volevo ogni volta dimostrare a me stesso e agli altri di essere sempre un giocatore al servizio del gruppo. Quando ad esempio ero al 30% della forma ideale, appena rientrato dall’ennesimo infortunio, il mio unico pensiero era aiutare la squadra. Che per me equivale a supportare la mia famiglia, perché in un team siamo tutti parte di un’unica cosa».
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