Quel manichino che lenisce i dolori

FRIGO TREVISO DENTRO LA CITTA', IN FOTO LA DONNA MANICHINO AL BAR DELLA STAZIONETTA SANTI QUARANTA AGENZIA FOTOGRAFICA FOTOFILM
FRIGO TREVISO DENTRO LA CITTA', IN FOTO LA DONNA MANICHINO AL BAR DELLA STAZIONETTA SANTI QUARANTA AGENZIA FOTOGRAFICA FOTOFILM
Segni particolari: bellissima. E disponibile. Seduta, con le gambe accavallate e levigatissime, addosso uno “straccio” in jeans che sembra pensato per lei, unghie laccate, capelli biondi, occhi truccati, sopracciglia curate, labbra rosse, un ombrello appoggiato sulle spalle e una bambola (rotta), anch’essa bionda, appoggiata alle ginocchia. Non parla: ascolta, come quasi più nessuno sa fare.


E le capita di ascoltarne di tutte. Spesso (quasi sempre) storie tristi, talvolta (spesso, ma non sempre) biascicate da uomini che hanno già svoltato, accompagnando con il vino la discesa in sè stessi, piallati da solitudini che ogni giorno si fanno più cattive.

 Lei ascolta. Perchè è un manichino, e i manichini non commentano. C’è chi sui manichini ci ha fatto letteratura, chi ci ha fatto musica (Serrat, Paoli...), chi ci fa commercio (le botteghe, ma anche certi banchi di cocomerai d’estate), chi ci fa troppa ironia, specie se il manichino è femmina.


Ma la «signora» in questione ha l’aura del mito, anzi della letteratura. Spicca, nel giardino del bar della «Stazionetta» di Santi Quaranta, come un giglio un po’ sciupato dalle intemperie. A metterla lì, forse, sono stati gli stessi gestori dell’osteria, ma questa è prosa. La poesia di cui si nutre un mito non permette le precise collocazioni spazio-temporali. E di certo non si chiedono da dove è venuta tutti i suoi confidenti.


C’è chi, alla fine di una giornata particolarmente pesante (anche le ombre pesano), si ferma a parlare con lei come con una vecchia amica, raccontandole dei figli che se ne fregano, della moglie che non capisce, di quel che avrebbe potuto essere e non è stato. C’è chi, vedendola bellissima, le usa le mille piccole attenzioni che si devono alla donna ideale, lasciandole giù il fardello di gentilezze e delicatezze che, diversamente, non saprebbe a chi affidare. C’è chi le racconta tutto nel dettaglio e chi, invece, riesce a mettere insieme solo poche parola «tanto lei sa».


A Roma hanno il palo dei lucchetti degli innamorati, a Treviso la bella signora bionda degli imbriaghi e di quelli un fià mati. Forse non riuscirà a diventare un mito come il collega (si fa per dire: è un palo...) sul Ponte Milvio, ma nel suo piccolo assolve a un sacco di funzioni: assistente sociale, confidente, amica che sa mantenere i segreti, roccia a cui aggrapparsi quando il mare è a forza nove e il mondo traballa un po’ troppo. Dialoghi sommessi, rispettati dagli altri avventori. Il sabato, giornata di chiusura del bar, i suoi confidanti sono costretti a girare un po’ al largo da quel giardino. Vanno in altre osterie ma, all’uscita, non trovano nessuno che abbia voglia di ascoltarli e sappia tenere il segreto, anzi i segreti della loro tristezza.


Una tristezza che ognuno immagina corrisposta: da quando tiene tra le braccia quel bambolotto rotto, ogni fantasia ci ha ricamato una storia diversa. E quelle storie immaginte permettono una ulteriore vicinanza: la condivisione. Il suo nome? Ognuno dei suoi «amici» gliene ha dato uno di diverso, ma in pubblico nessuno la cita.

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