Mario Rigoni Stern Il ricordo di Ferdinando Camon

Mario Rigoni Stern, grandissimo scrittore italiano, se n’è andato così com’era vissuto, silenzioso, solitario, nascosto. Incredibile a dirsi, è riuscito a fregare la stampa, che apprende la notizia con un giorno di ritardo.
PADOVA 20061027 MARIO RIGONI STERN MARIO RIGONI STERN AL XIII PREMIO DEL LIBRAIO CITTA' DI PADOVA (MATTOSCHI/Mattoschi )
PADOVA 20061027 MARIO RIGONI STERN MARIO RIGONI STERN AL XIII PREMIO DEL LIBRAIO CITTA' DI PADOVA (MATTOSCHI/Mattoschi )
E’ l’ultimo scrittore classico italiano. Grande anche come uomo. Alto, imponente, barbuto, bianco. Occhi morbidi. Parlava e scriveva con calma, con misura, con precisione. La calma gli derivava dal vivere ad Asiago, fuori d’Italia e fuori del tempo. Diceva: «La mia patria è l’Altipiano». Girare per l’Altopiano con lui era una delizia: dove tu non vedevi niente, lui vedeva la raspata del capriolo, che passando di lì aveva segnato il territorio. Dove scorgevi un fosso, lui riconosceva una trincea. Quando veniva a camminare per una giornata su per i monti, cominciava col passo curvo e stanco, finiva con lo stesso passo curvo e stanco: il passo degli alpini. Non è che gli alpini siano fortissimi all’alba e sfiniti alla sera, cioè che accumulino energie dormendo e le consumino nelle marce: no, riproducono le energie mentre le consumano. Non sono muscoli, come si crede. Sono polmoni, cuore, fegato. Lui era un alpino nato. Era un sergente nato. L’ufficiale spiega la tattica e poi si ritrae, mentre il sergente resta con i soldati. Il sergente combatte. Non vede gli altri morire, ma muore con loro. Rigoni era un sottufficiale verso cui l’ufficiale sente rispetto e soggezione. Quando si saliva per un costone e diceva: «Di qua», io mi giravo verso Mario Isnenghi e Sergio Perosa e per scherzo protestavo: «Ma perché dà ordini a me, se lui è un sergente e io un tenente?»: tutti ridevamo per la battuta, il senso era che anche in guerra quel che diceva il sergente Rigoni contava più di quel che dicevano gli ufficiali. Rigoni Stern è il narratore di un grandissimo evento, la ritirata dalla Russia (nell’immortale libro Il sergente nella neve), ma la ritirata, che è una faccia della sconfitta, ha una obiettiva, indelebile grandezza, e la grandezza è una faccia della bellezza. La luce che illumina la ritirata del «sergente nella neve» è un disastro epocale, in cui la disfatta è memorabile e grandiosa, come e più di una vittoria. Rigoni soldato comincia da molto in basso, caporale, e arriva dove può arrivare uno che comincia così, a sergente maggiore, “sergentmagiù”. Da lì vede la guerra bassa, la guerra della truppa. La sua truppa è composta di alpini. Gli alpini fanno la guerra senza disciplina, senza crudeltà, senza odio, ma con metodo, con obbedienza, come un lavoro. Da là sotto il sergentmagiù non vede i quadri, le direttive, le decisioni tattiche o strategiche, che infatti nei suoi libri non ci sono; vede il combattimento delle squadre, al massimo dei plotoni. L’assalto, le bombe a mano, «le pesanti» (sottinteso mitragliatrici), i mortai, le bajonette, le trincee. La morte dei proprii soldati e dei nemici. La morte negli occhi. Le isbe, i contadini, le contadine, la solidarietà, il pianto, la pietà. E’ una guerra da volontario, ma combattuta perché altri vogliono. C’è una spietatezza nella vita militare, che si traduce nell’espressione «l’è dura». La durezza merita pietà, per sé e per i nemici. E’ una condizione fatale, voluta dal destino. Mussolini sta in un altro orizzonte, oggetto di qualche breve sberleffo. Hitler non esiste. Il fascismo, mai nominato. I fascisti qualche volta, sotto forma di soldati inefficienti, bravi solo a cantare “Pugnal fra i denti”. Da là sotto (il livello della truppa) le grandi svolte arrivano improvvise e incomprensibili. In Quota Albania, «i francesi hanno chiesto l’armistizio, l’ho sentito alla radio». In Grecia, i greci si ritirano mentre ci tenevano inchiodati, perché sono attaccati dai tedeschi dalla parte della Tracia. In Russia, «corre voce che siamo circondati», ma quando e come non si sa. In Francia, in Albania, in Grecia, in Russia, la guerra di Rigoni Stern è una condizione esistenziale, non storica. Il soldato migliore di tutti è quello che sopporta più di tutti. La sopportazione va al di là della sopportabilità, tocca limiti nei quali non si sentono più i nervi, le ossa, le gambe, le mani, l’unità del proprio corpo: il corpo diventa due, uno sei il tu che conosci e l’altro sei un tu che non conosci. I piedi marciscono, impestano l’aria con l’odore rancido della cancrena. Un tenente impazzito bussa all’isba di notte, è convinto che l’isba sia una tipografia, viene a chieder che gli stampino l’articolo. La grandezza sta nel varcare i limiti oltre i quali non si è, fermarsi nel nuovo mondo, e poi tornare indietro. La grandezza sta nel gettare uno sguardo sull’Inferno. La ritirata dal Don è una risalita dall’Inferno, i superstiti sono dannati redivivi. Nel mondo dei vivi, i dannati non possono raccontarsi, perché non vengono creduti. Allora si cercano tra di loro, per credersi e confermarsi. La scrittura di Rigoni Stern è un racconto collettivo, a nome di tutti, per dare esistenza scritta a qualcosa che fatica ad avere un’esistenza orale. Perché ciò che lui racconta sia accettabile per tutti, Rigoni lo svuota di ogni giudizio etico, lo carica soltanto di un valore esistenziale: perciò i suoi diari militari sono epici, grandiosi, ammalianti, duraturi. Non si poteva (non potevo) salire all’Altopiano senza pensare (inconsciamente) che Rigoni era lì. L’Altopiano era pieno di lui. Adesso è vuoto.

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