«Assaltata, arrestata e umiliata per Gaza», Beatrice Lio torna libera dopo la Flotilla
L’attivista di Motta di Livenza ha partecipato alla missione navale umanitaria: «Giorni in carcere senza poter avvisare la famiglia»

«Ci hanno speronati, assaltati militarmente, arrestati. Siamo rimasti prigionieri cinque giorni, tra celle di sicurezza al porto e due carceri diverse: umiliazioni, minacce, processi. Tutto senza poter avvisare le nostre famiglie».
Sapeva da agosto, che sarebbe partita con la Flotilla verso Gaza. «Ma ho avvisato i miei genitori solo un paio di giorni prima, per non farli preoccupare troppo», ci racconta al telefono.
Beatrice Lio, trent’anni, trevigiana di Motta di Livenza: è una degli attivisti che da tutto il mondo hanno preso parte alla spedizione navale diffusa per portare aiuti umanitari e lanciare un messaggio forte: stop alle atrocità e al genocidio a Gaza.
Beatrice, ora è tornata libera?
«Sì, da pochi giorni, sono a Parigi. Rientrerò a Motta a fine mese».
Perché ha deciso di partire con la Flotilla?
«Seguo la causa palestinese da diversi anni, da ben prima del 7 ottobre. Con l’escalation mi sono sentita testimone di una pagina nera della storia, il live stream del genocidio ha impattato la mia quotidianità, e mi sono chiesta cosa fare».
Quando e come?
«In agosto, ho sentito che l’ambito marittimo poteva essere utile per intervenire, io ho esperienza in quel settore, sulle barche lavoro da anni, e servivano profili come il mio. Sono entrata in contatto con l’organizzazione della Freedom Flotilla, e sono entrata nel vivo anche più di quanto attendessi».
E ha deciso di partire.
«Ho sospeso una parte della mia vita e mi sono occupata ogni giorno nella creazione di una flotta, ero co-capitana di una delle navi. All’inizio ne avevamo solo tre, poi ne abbiamo organizzate altre, chiamando marinai e amici. Siamo partiti dopo la Global Sumud Flotilla: stesso obiettivo, organizzazioni diverse».
E stesso drammatico epilogo: anche voi fermati in acque internazionali dalla marina militare israeliana prima di arrivare a Gaza.
«È stato tutto rapidissimo. Erano le tre e mezzo di notte quando abbiamo avuto le prime avvisaglie, l’arrivo dei militari è stato repentino, quasi immediato».
Come?
«A differenza della Summud pochi giorni prima, in cui hanno attaccato a più riprese perché le imbarcazioni erano tante, con noi sono stati fulminei: siamo stati accerchiati da navi di diverse grandezze, ci hanno puntato con dei grossi gommoni, ci hanno speronati e sono entrati di lato dopo un urto violento. Poi flash abbaglianti, intimidazioni al megafono, caos generale, hanno preso controllo della nave».
Violenza?
«Armi spianate, erano tutti incappucciati. Ci hanno fatti scendere dalla nostra barca a vela, caricati e imprigionati in varie parti della loro nave. Lì umiliazioni, sequestro di tutto, rinchiusi in cabine-celle. Dieci ore di navigazione fino ad Ashdod, primo porto a nord della Striscia».
E poi?
«Lì di nuovo in ginocchio sull’asfalto, tre ore, costretti ad ascoltare musica di propaganda sionista assordante. Poi ci hanno caricati e portati in una struttura nel porto: ancora perquisizioni corporali, un lunghissimo iter burocratico davanti a vari ufficiali e agenti israeliani, foto, documenti. Ci hanno fatto domande e mini processi, anche se non avevamo capito se eravamo di fronte a giudici o ufficiali dell’immigrazione, parlavano in ebraico. Infine ancora spogliati, bendati come detenuti, ammanettati, portati su camion blindati, due ore di viaggio, in una prima prigione, Ketziot, nel deserto del Negev: lì abbiamo trovato anche compagni della Summud. Due giorni dopo altra prigione: perquisiti, stesso iter, non sapevamo dove fossimo. Ci hanno tenuti imprigionati altri due giorni, poi ci hanno accompagnati alla frontiera con la Giordania, e lì liberati con un provvedimento di espulsione, il 12 ottobre».
Avete sentito il supporto e l’aiuto del Governo italiano?
«Non abbiamo mai avuto contatti diretti con la Farnesina, ma la mia famiglia sì. Per il volo di rientro ci siamo arrangiati, il Governo italiano non ha fatto alcun passo in quel senso. E siamo stati attaccati in acque internazionali, a 220 chilometri dalla costa, in spregio del diritto internazionale».
Sa che il ministro Tajani ha detto che “il diritto internazionale conta fino a un certo punto”?
«Tajani si è anche appropriato delle immagini di un papà palestinese che sventolava la bandiera italiana, come se fosse un ringraziamento al suo Governo quando in realtà lo era per chi ha aiutato quel popolo e ha manifestato in piazza». —
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