Quel mulo che scalciava e la montagna che unisce

di FERDINANDO CAMON
Non dimenticherò mai la naja alpina.
Fare la naja con gli alpini vuol dire spartire la vita, le fatiche, i pericoli, la stanchezza, i problemi, perfino le malattie. Si ricorda tutto, della naja, quand'è finita. E la si rimpiange.
A un'adunata con i miei alpini, quelli del mio plotone e della mia compagnia, tornerei di corsa. Non m'interessa il battaglione, il reggimento, la brigata, m'interessa la compagnia, e più ancora il plotone. Non m'interessano gli alti ufficiali, il generale, il colonnello, il maggiore, insomma le penne bianche. Nemmeno il capitano. M'interessano i semplici alpini, qualunque mansione avessero. Anche gli addetti ai muli. M'interessano anche i muli.
Alcuni avevano un fiocco rosso all'orecchio, segno che mordevano, altri un fiocco rosso alla coda, segno che scalciavano. Appena arrivato al reparto non lo sapevo, il capitano mi fa: "Vada ai muli". Vado ai muli. Son lì che li guardo e sento un soffio di vento in faccia, mi guardo in giro stupefatto e un alpino mi tira indietro spiegandomi: "Signor tenente, questo mulo scalcia, ha un fiocco rosso in coda, deve star lontano". Son vivo per miracolo. Un calcio in faccia, e sarei morto.
C'è una foto in questo libro, su un mulo scalciatore: trovarsi dietro questo mulo mentre sferra questo calcio, vuol dire sentire la testa in frantumi. I muli erano importantissimi, amatissimi, seguitissimi. Se in una marcia si faceva male un alpino, lo si mandava all'ospedale e si aspettava che rientrasse. Ma se si faceva male un mulo, venivano a controllarlo tutti gli ufficiali, dal tenente al maggiore, a vedere cos'aveva, come mai, quando sarebbe guarito. Un reparto senza un alpino è al completo, senza un mulo è monco.
Il mulo era un animale-simbolo. Gli alpini erano muli. Infaticabili, docili, obbedienti, grati. Una volta facemmo una manovra ai confini con l'Austria, una di quelle manovre che fingono di essere operazioni reali, e dunque prevedono punizioni severe per chi sbaglia. Marciammo per 12 ore, mangiando al sacco. Alla sera piantiamo le tende. Via radio arriva la notizia che non avremmo mangiato, perché le salmerie avevano sbagliato sentiero ed erano finite in mano al nemico.
Cinque minuti d'imprecazioni. Poi gli alpini si disperdono per i monti, girando in cerca di mucche da mungere, e tornando con la gavetta piena di latte. Io m'ero già sdraiato per dormire, quando un alpino entra e mi offre la sua gavetta piena di latte tiepido.
Gli alpini eran fratelli tra loro. Sì, si facevano l'un l'altro scherzi anche pesanti nel giorni della "stecca", quando una leva va in congedo e un'altra subentra: quella che se ne va ha su quella che viene ogni potere, ma gli alpini usano questa licenza con dignità, niente a che fare con la volgarità degli ufficiali.
Ricordo che, tra gli ufficiali, gli anziani obbligavano i nuovi arrivati a ingoiare sterco di vacca, inchiostro e detersivo. Io mi vergognavo e mi dissociavo. Ma il turpe gioco continuava fino alla fine.
Gli alpini erano coraggiosi, anche più degli ufficiali. In vetta arrivavano sempre per primi. Se c'era un pass. aggio difficile, loro, quelli della squadra rocciatori, si legavano alla montagna per afferrare al volo e deporre dall'altra parte quelli che dovevano passare.
Noi eravamo del Settimo, le nostre montagne erano il Pelmo, il Civetta, l'Antelao, le Tre Cime di Lavaredo. Il Latemar, che era (ma questo era un segreto militare) la nostra "linea di estrema difesa". In vetta al Pelmo si sale per una cengia esposta, che per un piccolo tratto era crollata (adesso il crollo è molto più lungo, e ci hanno messo un tratto di ferrata), c'era un salto da fare, un salto di due metri, una sciocchezza, se non fosse che sotto c'era uno strapiombo di due-trecento metri.
Dall'altra parte del salto ponemmo un alpino rocciatore, assicurato alla montagna con corde e moschettoni, chi arrivava gli saltava in braccio, lui lo afferrava e lo metteva giù. Come sono arrivato io, l'ho guardato negli occhi, lui ha sorriso, mi son buttato e come vedete sono ancora vivo. Vedo ancora il suo sorriso. Se lo incontro, lo riconosco. Anche nel mondo di là. Strano, in una brigata veneta, era un piemontese.
A unire gli alpini non è il posto dove son nati, possono anche esser nati a 500 chilometri di distanza, ma è la montagna. Piemontesi e giuliani sono fratelli. Quando c'è da lavorare, lavoran tutti. Non vedrai mai una foto in cui cento alpini lavorano e quattro-cinque fanno i lavativi.
Guardate nel libro la foto degli alpini al lavoro: tutti indaffarati. Guardate la foto degli alpini in tuta bianca che tirano su per il monte delle slitte stracariche: sono tutti sotto sforzo. Si dormiva su letti a castello, e non ho mai capito se eran meglio i posti sotto o quelli sopra. Secondo me, non c'era differenza, perché quando si spegneva la luce giallina e s'accendeva la luce azzurrina, era come se una colla t'impastasse le palpebre: si chiudevano di colpo.
La divisa dell'alpino sta nel cappello: si potevan vedere alpini seminudi, ma sempre col cappello in testa. Gli alpini motorizzati, col casco, non sembrano neanche alpini. Certo, la penna d'aquila è fragile, e può spezzarsi. Ha un incavo alla base, una forcella, e appena ha il suo cappello e la sua penna, l'alpino tende a intagliarsi la forcella con una forbice. Ma non può. Prima deve realmente scavalcare una forcella, tra i 2.500 e i 3.000 metri. Se no, vien punito dagli anziani. Dopo averla così meritata, l'alpino si tiene la sua penna d'aquila per tutta la vita.
La mia è ancora qui, di fronte a me.
La sto guardando.
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